Sacra   Scrittura

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PICCOLO COMPENDIO DELLA SACRA SCRITTURA

INTRODUZIONE


“Il Dio invisibile ha parlato agli uomini come ad amici”: ecco il senso semplice e allo stesso tempo straordinario della Bibbia. Essa, come sosteneva Gregorio Magno, è una lettera d'amore che Dio ha scritto all'umanità.

Dunque la Bibbia è la Parola di Dio in parole umane.

Ma la domanda fondamentale è: "CHI é la Parola di Dio"

La Parola di Dio per eccellenza è Gesù Cristo, uomo e Dio. Il Figlio eterno è la Parola che da sempre esiste in Dio, perché essa stessa è Dio: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1, 1). La Parola rivela il mistero di Dio Uno e Trino. Dopo il peccato dei progenitori (cf. Gen 3, 1-24) che offuscò pure l’accesso a Dio per mezzo della creazione. Dio, clemente e misericordioso (cf. 2 Cr 30, 9), nella sua bontà non abbandonò gli uomini. Scelse un popolo in favore di tutte le nazioni (cf. Gen 22, 18) e continuò a parlargli durante i secoli per mezzo dei patriarchi e dei profeti, uomini prescelti per mantenere viva la speranza che offriva consolazione anche negli eventi drammatici della storia della salvezza. Le loro parole ispirate sono raccolte nei libri dell’Antico Testamento. Esse hanno mantenuta viva l’attesa della venuta del Messia, figlio di Davide (cf. Mt 22, 42), virgulto dalla radice di Iesse (cf. Is 11, 1).

Quando poi nella pienezza del tempo (cf. Gal 4, 4) Dio volle svelare agli uomini il mistero della sua vita, nascosto da secoli e da generazioni (cf. Col 1, 26), il Figlio Unigenito di Dio si incarnò, «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). In tutto simile a noi eccetto nel peccato (cf. Eb 2, 17; 4, 15), il Verbo di Dio dovette esprimersi in modo umano tramite parole e gesti che sono narrati nel Nuovo Testamento e specie nei Vangeli. Si tratta di un linguaggio in tutto simile a quello degli uomini, eccetto nell’errore. Con gli occhi della fede, nella fragilità della natura umana di Gesù Cristo, il credente scopre lo splendore della sua gloria «come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14). Analogicamente, per mezzo delle parole della Sacra Scrittura, il cristiano è invitato a scoprire la Parola di Dio, lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio (cf. 2 Cor 4, 4)… Illuminati dallo Spirito Santo, dono del Signore risorto, e sotto la guida del Magistero, i fedeli scrutano le Scritture e si avvicinano al loro pieno significato incontrando la Parola di Dio, la persona del Signore Gesù, colui che ha parole di vita eterna (cf. Gv 6, 68).

La lettura della Parola in Cristo nello Spirito Santo, permette l’ascesa dalla lettera allo spirito, dalle parole umane alla Parola di Dio. Infatti, le parole non poche volte nascondono il vero significato, proprio dei generi letterari, della cultura degli scrittori ispirati, del modo di concepire il mondo e le sue leggi. Pertanto, è necessario riscoprire nella molteplicità delle parole l’unità della Parola di Dio che dopo tale dovuto e impegnativo percorso risplende con uno splendore inatteso che supera di molto la fatica della ricerca….

 Ciò accade in modo particolare nelle celebrazioni liturgiche che raggiungono il culmine nell’Eucaristia ove la Parola dimostra la sua miracolosa efficacia. Infatti, per espressa volontà di Gesù Cristo «fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19), le parole pronunciate dal sacerdote nella persona di Cristo: «prendete, questo è il mio corpo» (Mc 14, 22), «questo è il mio sangue» (Mc 14, 24) trasformano, per l’azione dello Spirito Santo, donato dal Padre, il pane nel corpo e il vino nel sangue del Signore risorto. Da questa perpetua fonte di grazia e di carità, la Chiesa trae costantemente la linfa vitale e lo slancio per la sua missione nel mondo contemporaneo i cui abitanti sono chiamati a scoprire nella persona di Gesù Cristo la Parola di Dio che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6) per ognuno e per tutta l’umanità.

(Dal SINODO DEI VESCOVI  XII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA. LA PAROLA DI DIO NELLA VITA E NELLA MISSIONE DELLA CHIESA, INSTRUMENTUM LABORIS  Città del Vaticano 2008)

CHE COSA SIGNIFICA BIBBIA?

Il termine Bibbia viene dalla parola greca Biblia che significa libri. 

La Bibbia raccoglie tutti i libri che noi Cristiani chiamiamo Antico Testamento e Nuovo Testamento. In tutto sono 73

Nel Nuovo Testamento entrano i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le lettere di Paolo, altre lettere e l’Apocalisse: 27

Nell’Antico Testamento tutti gli altri libri: 46


Testamento significa Alleanza, Patto.


L’Alleanza 

Molte volte, o Dio, gli uomini hanno infranto la tua alleanza, e tu, invece di abbandonarli, hai stretto con loro un vincolo nuovo per mezzo di Gesù: un vincolo così saldo che nulla potrà mai spezzare” (Preghiera eucaristica della riconciliazione I)

L’alleanza, iniziata con Adamo e culminata nella morte e risurrezione di Cristo (come ricordiamo in ogni Messa), è il modo in cui Dio esprime il suo amore verso di noi: lui, Dio, scende al nostro livello e, come tra uguali, stringe un patto con noi. Lo fa continuamente, perché noi non siamo fedeli al patto. Ed Egli, invece di infrangerlo definitivamente, lo rinnova e lo rende più saldo: il suo amore non si arrende. 

Lo ha fatto con Noè, che vive un perenne cammino di conversione (“non ci saranno più le acque per il diluvio, ma l’impegno di Dio a non distruggere ogni carne” Gen 9,15).

Ad Abramo ha ricordato che il sacrificio fa parte dell’alleanza: l’offerta di Isacco, suo figlio, in sacrificio a Dio prefigura il dono supremo di Dio che “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi”(Rom 8.32°). Lo ha fatto con Mosè: nella visione del roveto ardente YHWH aveva rivelato a Mosè il suo nome ed il suo disegno riguardo ad Israele. Egli vuole liberare Israele dall'Egitto per stabilirlo nella terra di Canaan (Es 3,7-10.16-17 ), perché Israele è "il suo popolo" (Es 3,10 ), ed egli vuole dargli la terra promessa ai suoi padri (cfr. Gen 12,7;13,15 ). Ciò suppone YHWH abbia fatto Israele oggetto di elezione e depositario di una promessa.

In seguito l'esodo viene a confermare la rivelazione dell'Oreb: liberando effettivamente il suo popolo, Dio dimostra di essere il padrone e di essere capace d'imporre la sua volontà; il popolo liberato risponde quindi all'evento con la fede (Es 14,31 )

È  Gesù il tempio in cui è definitivamente stabilita e continuamente rinnovata l’alleanza e non sono più le leggi scolpite sulla pietra: facendo parte del corpo di Cristo, si vive nella nuova e definitiva alleanza.

La fedeltà di Dio all’alleanza si manifesterà nel dono del suo Figlio, perché il mondo si salvi per mezzo di Lui.

E infine Dio continua a scrivere un’alleanza nuova nel nostro cuore, a non ricordare più i nostri peccati, a creare in noi un cuore puro, nella misura in cui accettiamo la logica del seme che, per portare frutto, deve morire.

Il progetto di Dio è quanto mai onorifico per noi: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” è scritto nell’Esodo (Cap. 19,6).

La storia della salvezza offre, da una parte, l’immagine di Dio che stipula alleanza con il suo popolo, cambiando partner ma non progetto; dall’altra, presenta una umanità che viene meno alla parola data.

Forse è nostra pretesa voler godere i benefici della divina alleanza senza osservare i correlativi doveri, così come impongono i patti bilaterali.

Impariamo da Gesù, sempre fedele al patto suggellato anche con il suo sangue.

Egli porta a compimento tutte le promesse contenute nei patti: la remissione dei peccati, la legge nuova dell’amore scritta nei cuori, l’interiorità reciproca 


I Cristiani hanno chiamato Nuovo Testamento i libri che si riferiscono a Gesù, perché con Gesù, tramite la sua morte e risurrezione, si è instaurata con tutti i popoli della terra la Nuova Alleanza, che porta a compimento l’Antica Alleanza stabilita da Dio con i figli di Israele.

La Bibbia dunque è una “biblioteca”, cioè una grande e importante raccolta di libri che raccontano l'alleanza di Dio con l'uomo, cioè il suo amore.

N.B

1 I generi letterari della Bibbia

La Bibbia contiene un'infinità di forme o generi letterari, tra loro spesso mescolati anche all'interno di uno stesso libro.

I generi letterari sono le varie forme o maniere di scrivere comunemente usate tra gli uomini di una data epoca e regione, poste in relazione costante con determinati contenuti.

Per es. romanzi, novelle, poesia, storia, biografie, opere di teatro, ecc.

Nell' Antico Testamento si possono trovare: poesia popolare, prosa ufficiale (patti, simboli della fede, leggi, istruzioni, esortazioni, cataloghi, lettere...), narrazioni (miti, saghe, racconti eziologici (1), fiabe, memorie, informazioni, autobiografie...), letteratura profetica (oracoli, visioni, sogni, apocalissi...), generi sapienziali (proverbi, sentenze...),

Quanto al Nuovo Testamento, nei Vangeli sinottici troviamo detti profetici e sapienziali, paradigmi, parabole, dispute, sentenze, racconti di miracoli, storie della passione, ecc.; nelle Lettere si incontrano inni, confessioni di fede, cataloghi di vizi e virtù, precetti per la famiglia, formule di fede, dossologie, ecc.; negli Atti abbiamo discorsi, sommari, preghiere, lettere, racconti di missione, racconti di viaggi…

Avere coscienza della peculiarità dei generi è molto importante per il nostro accostarci alla Bibbia, proprio perchè siamo tentati di livellare i suoi diversi modi di esprimersi. Questo vale soprattutto per le narrazioni, che si tende sempre a leggere come fossero cronache dei fatti, senza sapere poi come affrontare gli inevitabili problemi di storicità di testi che non sono resoconti storici o lo sono in modo assai diverso dal nostro scrivere storia.

(1)Eziologia significa ricerca delle cause

2. Redazione

il testo scritto é la redazione finale di un lunghissimo processo di tradizioni orali.

I biblisti hanno stabilito delle date approssimative dei vari eventi che riguardano le vicende dell'antico Israele, da Abramo in poi, sulla base di studi molto approfonditi fatti prevalentemente nel xx secolo tramite l'archeologia, la storia, la filologia ecc.

ABRAMO 1800 a.C circa

ESODO 1200 a.C circa.

REDAZIONE FINALE 500 a.C circa.

Esistono diverse redazioni. Infatti le stesse vicende sono raccontate in diversi libri, con variazioni NON SOSTANZIALI. É stata fatta la scelta di mantenere e rispettare TUTTE LE REDAZIONI.

Questo lo possiamo capire nella nostra stessa esperienza, nella storia della nostra famiglia. Ognuno, genitori, figli, nipoti, parenti RICORDA GLI EVENTI in modo diverso, e questa diversità, che non tocca i FATTI SOSTANZIALI (es nascite, morti, matrimoni, feste particolari ecc) dipende da come ognuno ha vissuto quell' evento.

LA STORIA, ogni storia, É INTERPRETAZIONE DEI FATTI, e dipende dal punto di osservazione.

La storia della salvezza, tutta la storia biblica, ha un unico punto di osservazione: la fede in Dio creatore e salvatore dell'umanità dal quale e per mezzo del quale tutto esiste ed al quale tutto tende.

3. I sensi della Scrittura

Dal Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC)

115 Secondo un'antica tradizione, si possono distinguere due sensi della Scrittura: il senso letterale e quello spirituale, suddiviso quest'ultimo in senso allegorico, morale e anagogico. La piena concordanza dei quattro sensi assicura alla lettura viva della Scrittura nella Chiesa tutta la sua ricchezza.

116 Il senso letterale. È quello significato dalle parole della Scrittura e trovato attraverso l'esegesi che segue le regole della retta interpretazione. "Tutti i sensi della Sacra Scrittura si basano su quello letterale ".

117 Il senso spirituale. Data l'unità del disegno di Dio, non soltanto il testo della Scrittura, ma anche le realtà e gli avvenimenti di cui parla possono essere dei segni.

1. Il senso allegorico. Possiamo giungere ad una comprensione più profonda degli avvenimenti se riconosciamo il loro significato in Cristo; così, la traversata del Mar Rosso è un segno della vittoria di Cristo, e quindi del Battesimo. (139)

2. Il senso morale. Gli avvenimenti narrati nella Scrittura possono condurci ad agire rettamente. Sono stati scritti « per ammonimento nostro » (1 Cor 10,11).

3. Il senso anagogico. Possiamo vedere certe realtà e certi avvenimenti nel loro significato eterno, che ci conduce (in greco: “anagoge”) verso la nostra Patria. Così la Chiesa sulla terra è segno della Gerusalemme Celeste.

Storia e geografia delle vicende bibliche

GEOGRAFIA DELLA PALESTINA E DELLA MEZZALUNA FERTILE

Il Paese biblico non è un'unità indipendente, ma è inserito in un insieme più vasto. 

Da una parte la Palestina non si separa nettamente dalle regioni situate più a Nord, Libano e Siria attuali, che geograficamente costituiscono lo stesso paese, attraversato dalla stessa catena di montagne e limitato ad ovest dal Mar Mediterraneo; e all'Est dallo stesso deserto, quasi impraticabile, dell'Arabia. È dunque lo stesso, unico, stretto corridoio. D'altra parte questo corridoio termina alle sue estremità in vaste regioni, che basta nominare per capirne la importanza: al Nord c'è la vallata superiore dell'Eufrate, al livello della sua grande ansa, dove si apre l'immensa pianura della Mesopotamia. Ed in questi territori fiorirono le antiche civiltà dei Sumeri, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Persiani, che erano grandi potenze fino alla conquista greca e poi romana.

A Sud, c'è vicinissimo il delta del Nilo dove prosperò l’altra grandissima ed antichissima potenza degli Egiziani. La terra Palestinese viene così a trovarsi al centro di una specie di grande arco o "Mezzaluna fertile", la cui punta superiore penetra fino all'estremità del golfo Persico e la inferiore tocca i confini della Etiopia. 

Da qui l'importanza eccezionale di questa posizione, pensando alla grandezza delle due potenze che essa ha unito o separato. 


La Palestina è così una piattaforma predestinata, terra di scambi e crogiuolo di nazioni, ma anche pomo della discordia e oggetto di incessanti rivalità.

Questa lingua di terra ha proporzioni modeste. La lunghezza massima del territorio biblico è di 250 Km - Larghezza dalla costa al margine del deserto 150 Km - Superficie : circa 34. 000 Kmq 


Orografia: Le diverse zone del rilievo, da Ovest ad Est sono : i territori pianeggianti della costa, la zona pedemontana-collinosa, il rilievo montagnoso che costituisce la spina dorsale della regione, la vallata giordanica, il tavolato transgiordanico, la regione arida al Sud, cioè il Negeb. La costa mediterranea della Regione si presenta piatta e rettilinea e non offre insenature, porti naturali che possano invitare gli abitanti a farsi marinai. Vi è soltanto il porto di Giaffa (la Cesarea del NT). Le coste sono in genere sabbiose e poco adatte sia alla agricoltura che alla costruzione di porti. Quest'ultimo elemento spiega la diffidenza degli antichi Israeliti verso il mare, considerato una sopravvivenza dell'antico caos, ed il loro carattere poco navigatore, a differenza dei loro vicini Fenici. 


STORIA DI ISRAELE BIBLICO


La storia di Israele è l’intelaiatura del messaggio religioso trasmesso da questo popolo, è un po’ la struttura ossea, l’elemento sostentatore di quell'organismo vivo che è l'AT. Da solo certo lo scheletro non attira né appaga lo sguardo, ma guai se mancasse.


La storia dell'Israele biblico può essere suddivisa in 6 periodi : 

1. Dalle origini alla monarchia: epoca patriarcale, quella dei padri o antenati di Israele, con la consistenza storica molto vaga delle figure come Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele, Giuseppe. Fa seguito la presenza di tribù israelitiche in terra di Egitto, con un periodo di espansione e di crescita e un successivo periodo di oppressione e di schiavitù. L'uscita liberatrice dall'Egitto, la permanenza nel deserto e l'entrata nella terra saranno avvenimenti decisivi per il divenire storico e culturale del popolo della Bibbia. Segue un periodo travagliato di assestamento nella terra, che va sotto il nome di "epoca dei Giudici", in mezzo a difficoltà e resistenze.

2. L'epoca monarchica: storia di Israele e di Giuda col primo re Saul, poi con Davide, che segna il momento del massimo splendore dal punto di vista politico ed economico. Ma dopo la morte di Salomone i due regni di Israele e di Giuda si divisero ed ebbero vita difficile, soprattutto per via delle grandi potenze che li circondavano: Egitto, Assiria e Babilonia. Nell'anno 732 il regno del Nord viene politicamente spazzato via dalla storia, allorché gli Assiri muovono contro la città capitale Samaria e la fanno cadere. Il regno di Giuda con capitale Gerusalemme riesce a sopravvivere altri 150 anni circa. Saranno i Babilonesi con Nabucodonosor nel 586 a distruggere Gerusalemme con la reggia e il tempio e ad estinguere la dinastia davidica.

3. Il periodo post-esilico o Giudaismo: la fine di Babilonia con la supremazia del potere persiano nel 538 significa per la comunità giudaica esule la possibilità di ritornare in patria e di ricostruire il tempio distrutto. (Il famoso editto di Ciro di cui si parla anche nella Bibbia)

4. Periodo persiano: politicamente il popolo ha perso la indipendenza, il territorio è una provincia dell'impero persiano, ma religiosamente è autonomo e intraprende un'opera di restaurazione.

5. Il periodo greco: Alessandro il Macedone a partire dall'anno 333 (battaglia di Isso) diventa il nuovo "dominus mundi" dell'antico Medio Oriente.. Politicamente la Palestina è sottomessa ai Diadochi (Lagidi o Tolomei di Egitto, oppure i Seleucidi di Siria). Culturalmente il Giudaismo incomincia ad avvertire la pressione e il fascino dell'ellenismo. L’insurrezione maccabaica a partire dal 166 aC, rappresenta il tentativo del mondo giudaico di scrollarsi di dosso prima il controllo religioso e poi il giogo politico dei Greci. 

6. Periodo romano: nell’anno 63 la Palestina diventa provincia Romana con Pompeo, e con la nascita del Messia durante l’impero di Tiberio si innesta nell’era cristiana.

LA VISIONE EBRAICA DEL COSMO

La prima teoria del cosmo nel mondo ebraico antico si fondava sull'assunzione che la Terra fosse piatta e poggiasse su colonne.

Questa convinzione, assodata  probabilmente già nel 4000 a.C., era formulata sulla base di dati empirici raccolti durante semplici osservazioni del cielo.:

Se si comprende bene questa concezione, non sembreranno più incomprensibili passi della Bibbia come il versetto 4 del Salmo 148: «Lodatelo, cieli dei cieli, e voi acque al di sopra dei cieli!».

Ma sorgono tante domande che scaturiscono dalle nostre conoscenze scientifiche di millenni dopo, come ad esempio: ma queste colonne su cui poggia la Terra a loro volta dove poggiano? L’ebreo antico ti risponderebbe che sono fondate su di un ipotetico abisso (in qebraico tehom), riempito dalle "acque inferiori".

La Terra è sormontata infatti da un “firmamento” che consiste in una vera e propria calotta di vetro trasparente, che di giorno appare azzurro proprio perché al di sopra di esso si trovano altre acque, le "acque superiori" appunto.

Sopra di esse vi sono altri cieli, i cosiddetti "cieli dei cieli", nei quali ha sede Dio.

Considerando tutto questo si capisce perché, nel secondo giorno della creazione, Dio separa "le acque inferiori dalle superiori”: tutto il mondo in cui viviamo é avvolto dall’acqua, quella stessa sulla quale “aleggia” lo Spirito di Dio l’istante prima della creazione.











ANTICO TESTAMENTO

INTRODUZIONE

L'Antico Testamento raccoglie i libri che gli Ebrei raggruppavano in tre grandi parti:

la Torah (Legge),  i Nebi'îm (Profeti)  ed i Ketubîm (Scritti).

 Il primo libro è la Torah.

Torah in genere si traduce legge, ma questo termine deriva dal verbo ebraico che significa indicare, col gesto dell’indice, di qualcuno che mostra qualcosa a qualcun altro. Torah significa dunque istruzione, formazione, dottrina, insegnamento. 

L’istruzione fondamentale viene data raccontando la storia primordiale del popolo, i fondamenti della esperienza del popolo di Israele.

La Torah (Pentateuco) è divisa in cinque volumi.

Gli Ebrei intitolavano i libri dalle parole iniziali. 

I cinque libri della Torah dunque si intitolano: 

1 In principio (Bereshit) “In principio Dio Creò il cielo e la terra”

2 I nomi: “Questi sono i nomi dei figli d'Israele entrati in Egitto”

3 E chiamò: “Il Signore chiamò Mosè”

4 Nel deserto: “Il Signore parlò a Mosè, nel deserto del Sinai”

5 Le parole: “Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele oltre il Giordano”


Nel II secolo a.C gli Ebrei di lingua greca, ad Alessandria d’Egitto, tradussero in greco la Bibbia. 

Nella traduzione in greco la Torah è stata chiamata Pentateuco, nome che è rimasto in italiano. Pentateuco significa cinque astucci. Infatti anticamente gli scritti si conservavano in rotoli che poi si custodivano in astucci tubolari. Quindi un solo libro in cinque volumi.


I LIBRI DELLA BIBBIA CATTOLICA

Pentateuco 

Genesi

Esodo

Levitico

Numeri

Deuteronomio

 

Libri Storici

Giosuè

Giudici

Rut

1 Samuele

2 Samuele

1 Re

2 Re

1 Cronache

2 Cronache

Esdra

Neemia

Tobia

Giuditta

Ester

1 Maccabei

2 Maccabei

 

Libri poetici e Sapienziali

Giobbe

Salmi

Proverbi

Qoelet

Cantico dei Cantici

Sapienza

Siracide

 

Libri Profetici

Profeti maggiori

Isaia

Geremia

Lamentazioni

Baruc

Ezechiele

Daniele

Profeti minori

Osea

Gioele

Amos

Abdia

Giona

Michea

Naum

Abacuc

Sofonia

Aggeo

Zaccaria

Malachia

Il Pentateuco, o Torah, è stato attribuito a Mosè. Ma gli studiosi che hanno affrontato questo argomento hanno concluso che non può essere attribuito a lui. Mosè è un personaggio importante, che ha segnato gli inizi del popolo di Israele, che ha dato al popolo  la legge, ma il Pentateuco non può essere opera sua: è il frutto di una lunghissima tradizione storica. La figura di Mosè è storicamente databile verso la metà del 1200 a.C, mentre la stesura finita del Pentateuco risale al 400 a.C (800 anni).

Inoltre i racconti della Genesi non parlano di Mosè ma dei patriarchi. La figura di  Abramo è vagamente collocabile intorno al 1800 a.C, e comincia con l’umanità preistorica, per arrivare a ritroso all’inizio della creazione del mondo.

Dunque il Pentateuco parte dalla creazione ed arriva fino al racconto della morte di Mosè ed al suo elogio.

Abbiamo quindi a che fare con una storia di tradizione letteraria che è durata oltre un millennio. Ci furono molte raccolte di leggi, racconti parziali slegati tra di loro, rituali liturgici, regole morali di vita, tramandati oralmente per molti secoli.

Poi per tanti altri secoli qualcuno ha cominciato a mettere per iscritto ciò che era stato raccontato, cantato, documentato solo oralmente. Si cominciò a mettere per iscritto queste tradizioni durante il periodo della monarchia, il regno di Davide e dei suoi successori, mentre i profeti continuavano a parlare insegnando, ammonendo, ricordando al popolo la legge. Poi ci fu il disastro: prima il regno di Israele al nord poi il regno di Giuda al sud  caddero nelle mani degli Assiri e Babilonesi. Le classi dirigenti vennero deportate in Babilonia, Gerusalemme e il tempio furono distrutti. Sembrava tutto finito: si tratta del famoso esilio babilonese, durante il quale nascono i testi che sono alla base del Pentateuco soprattutto la tradizione sacerdotale, quella cioè dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme: raccolse le tradizioni orali e cominciò a scrivere una storia del popolo con un intento teologico, perché doveva dare consolazione a quel piccolo resto di deportati. In forza della fede quel gruppo di profeti rianimò la speranza di Israele.

Tornati dall’esilio ricostruirono come poterono una loro identità, e sotto il dominio dei Persiani il piccolo gruppo di rimpatriati cercò di riorganizzarsi meglio, di recuperare l'identità di popolo e di valorizzare le antiche tradizioni. 

Un personaggio importante in questo periodo é Esdra, uno scriba, un sapiente ricercatore delle antiche tradizioni, il quale, verso l'anno 400, organizzò con molti collaboratori la stesura finale del Pentateuco, che è la parte fondamentale dell'antica tradizione biblica.


NOTE 

1 I generi letterari della Bibbia

La Bibbia, contiene un'infinità di forme o generi letterari, tra loro spesso mescolati anche all'interno di uno stesso libro.

I generi letterari sono le varie forme o maniere di scrivere comunemente usate tra gli uomini di una data epoca e regione, poste in relazione costante con determinati contenuti.

Per es. romanzi, novelle, poesia, storia, biografie, opere di teatro, ecc. 

Nell' Antico Testamento si possono trovare: poesia popolare, prosa ufficiale (patti, simboli della fede, leggi, istruzioni, esortazioni, cataloghi, lettere...), narrazioni (miti, saghe, racconti eziologici (1), fiabe, memorie, informazioni, autobiografie...), letteratura profetica (oracoli, visioni, sogni, apocalissi...), generi sapienziali (proverbi, sentenze...), ecc.

Quanto al Nuovo Testamento, nei Vangeli sinottici troviamo detti profetici e sapienziali, paradigmi, parabole, dispute, sentenze, racconti di miracoli, storie della passione, ecc.; nelle Lettere si incontrano inni, confessioni di fede, cataloghi di vizi e virtù, precetti per la famiglia, formule di fede, dossologie, ecc.; negli Atti abbiamo discorsi, sommari, preghiere, lettere, racconti di missione, racconti di viaggi, ecc.

Avere coscienza della peculiarità dei generi è molto importante per il nostro accostarci alla Bibbia, proprio perchè siamo tentati di livellare i suoi diversi modi di esprimersi. Questo vale soprattutto per le narrazioni, che si tende sempre a leggere come fossero cronache dei fatti, senza sapere poi come affrontare gli inevitabili problemi di storicità di testi che non sono resoconti storici o lo sono in modo assai diverso dal nostro scrivere storia.


Eziologia significa ricerca delle cause

PENTATEUCO

INTRODUZIONE

Il Pentateuco, o Torah, è stato attribuito a Mosè. Ma gli studiosi che hanno affrontato questo argomento hanno concluso che non può essere attribuito a lui. Mosè è un personaggio importante, che ha segnato gli inizi del popolo di Israele, che ha dato al popolo la legge, ma il Pentateuco non può essere opera sua: è il frutto di una lunghissima tradizione storica. La figura di Mosè è storicamente databile verso la metà del 1200 a.C, mentre la stesura finita del Pentateuco risale al 400 a.C (800 anni dopo).

Inoltre i racconti della Genesi non parlano di Mosè ma dei patriarchi. La figura di Abramo è vagamente collocabile intorno al 1800 a.C, e comincia con l’umanità preistorica, per arrivare a ritroso all’inizio della creazione del mondo.

Dunque il Pentateuco parte dalla creazione ed arriva fino al racconto della morte di Mosè ed al suo elogio.

Abbiamo quindi a che fare con una storia di tradizione letteraria che è durata oltre un millennio. Ci furono molte raccolte di leggi, racconti parziali slegati tra di loro, rituali liturgici, regole morali di vita, tramandati oralmente per molti secoli.

Poi per tanti altri secoli qualcuno ha cominciato a mettere per iscritto ciò che era stato raccontato, cantato, documentato solo oralmente. Si cominciò a mettere per iscritto queste tradizioni durante il periodo della monarchia, il regno di Davide e dei suoi successori, mentre i profeti continuavano a parlare insegnando, ammonendo, ricordando al popolo la legge. Poi ci fu il disastro: prima il regno di Israele al nord poi il regno di Giuda al sud caddero nelle mani degli Assiri e Babilonesi. Le classi dirigenti vennero deportate in Babilonia, Gerusalemme e il tempio furono distrutti. Sembrava tutto finito: si tratta del famoso esilio babilonese, durante il quale nascono i testi che sono alla base del Pentateuco soprattutto la tradizione sacerdotale, quella cioè dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme: raccolse le tradizioni orali e cominciò a scrivere una storia del popolo con un intento teologico, perché doveva dare consolazione a quel piccolo resto di deportati. In forza della fede quel gruppo di profeti rianimò la speranza di Israele.

Tornati dall’esilio ricostruirono come poterono una loro identità, e sotto il dominio dei Persiani il piccolo gruppo di rimpatriati cercò di riorganizzarsi meglio, di recuperare l'identità di popolo e di valorizzare le antiche tradizioni.

Un personaggio importante in questo periodo é Esdra, uno scriba, un sapiente ricercatore delle antiche tradizioni, il quale, verso l'anno 400, organizzò con molti collaboratori la stesura finale del Pentateuco, che è la parte fondamentale dell'antica tradizione biblica

GENESI

La Genesi si divide in due parti disuguali:

1 Storia primitiva: cap 1-11. I primi undici capitoli della Genesi sono da considerare a parte. Descrivono, in modo popolare, l'origine del genere umano; enunziano con uno stile semplice e figurato, quale conveniva alla mentalità di un popolo poco evoluto, le verità fondamentali presupposte dall'economia della salvezza: la creazione da parte di Dio all'inizio dei tempi, l'intervento speciale di Dio che forma l'uomo e la donna, l'unità del genere umano, la colpa dei nostri progenitori, la decadenza e le pene ereditarie che ne furono la sanzione.

Ma queste verità, che riguardano il dogma e sono assicurate dall'autorità della Scrittura, sono nello stesso tempo fatti e, se le verità sono certe, implicano fatti che sono reali, sebbene non possiamo precisarne i contorni sotto il rivestimento mitico che è stato loro dato, secondo la mentalità del tempo e dell'ambiente.

La storia primitiva (1-11) è come un portico che precede la storia della salvezza che sarà raccontata da tutta la Bibbia; essa risale alle origini del mondo e stende la prospettiva all’ umanità tutta intera. Riferisce la creazione dell'universo e dell'uomo, il peccato originale e le sue conseguenze, la perversità crescente che è punita dal diluvio. A partire da Noè, la terra si ripopola, ma tavole genealogiche sempre più ristrette concentrano finalmente l'interesse su Abramo, padre del popolo eletto.

https://www.youtube.com/watch?v=LnQfI7f-qkc   

Don Doglio – Il poema sacerdotale della creazione


II Storia dei patriarchi cap. 12-50. La storia patriarcale è una storia di famiglia: raduna i ricordi che si conservavano degli antenati, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe. È una storia popolare che si sofferma sugli aneddoti personali e sui tratti pittoreschi, senza alcuna preoccupazione di unire questi racconti alla storia generale.

È , infine, una storia religiosa: tutte le svolte decisive sono segnate da un intervento divino e tutto vi appare come provvidenziale: concezione teologica vera da un punto di vista superiore, ma che trascura l'azione delle cause seconde; inoltre i fatti sono introdotti, spiegati e raggruppati per dimostrare una tesi religiosa: c'è un Dio che ha formato un popolo e gli ha dato un paese; questo Dio è Jahve, questo popolo è Israele, questo paese è la terra santa.

Ma questi racconti sono storici nel senso che narrano, alla loro maniera, avvenimenti reali; danno una immagine fedele dell'origine e delle migrazioni degli antenati di Israele, dei loro legami geografici ed etnici, del loro comportamento morale e religioso. I sospetti che hanno circondato questi racconti dovrebbero cedere davanti alla testimonianza favorevole che loro apportano le scoperte recenti della storia e dell'archeologia orientali.

La storia patriarcale (12-50), evoca la figura dei grandi antenati:

Abramo è l'uomo della fede, la cui obbedienza è ricompensata da Dio, il quale gli promette anche una posterità e la terra santa per i suoi discendenti (12,1-25,18).

Isacco è una figura assai pallida, la cui vita è narrata soprattutto per i rapporti che ha con suo padre o con suo figlio.

Giacobbe è l'uomo dell'astuzia, che soppianta il fratello Esaù, carpisce la benedizione del padre Isacco, supera in furbizia lo zio Labano. Ma tutte queste abilità non servirebbero a nulla se Dio non lo avesse preferito a Esaù prima della nascita e non gli avesse rinnovato le promesse dell'alleanza concesse ad Abramo (25,19-36). I dodici figli di Giacobbe sono gli antenati delle dodici tribù di Israele. A uno di loro è consacrata l'ultima parte della Genesi.

Giuseppe è al centro dei capitoli 37-50 (meno 38 e 49), I'uomo saggio per eccellenza. Questo racconto, che differisce dalle narrazioni precedenti, si svolge senza intervento visibile di Dio e senza nuova rivelazione, ma è tutto intero un insegnamento: la virtù del saggio è ricompensata e la Provvidenza divina volge in bene le colpe degli uomini. La Genesi è un «tutto» completo: è la storia degli antenati. I tre libri seguenti formano un altro blocco in cui, nel quadro della vita di Mosè, sono riferiti la formazione del popolo eletto e l'origine della sua legge sociale e religiosa.

https://vimeo.com/11017473   Don Doglio Il sacrificio di Isacco

ESODO

L'Esodo sviluppa tre temi principali:

1-  1,1-15,21: la liberazione dall'Egitto;                                                                                        2 - 15,22-18,27: il cammino nel deserto;
3 - 19,1-40,38: l'alleanza del Sinai.

L'Esodo e i Numeri, che hanno una eco nei primi capitoli del Deuteronomio, raccontano gli avvenimenti che vanno dalla nascita alla morte di Mosè: l'uscita dall'Egitto, la sosta nel Sinai, la salita verso Qadesh, il cammino attraverso la Transgiordania e l'installazione nelle steppe di Moab. Se si nega la realtà storica di questi fatti e della persona di Mosè, si rendono inesplicabili il seguito della storia di Israele, la sua fedeltà a Dio, il suo attaccamento alla Legge.

Si deve però riconoscere che l'importanza di questi ricordi per la vita del popolo e l'eco che trovavano nei riti hanno dato ai racconti il colore di gesta eroiche (così il passaggio del Mare Rosso) e talvolta di una liturgia (così la Pasqua).

Israele, diventato un popolo, fa allora il suo ingresso nella storia generale e, sebbene nessun documento lo menzioni ancora, salvo una allusione oscura della stele del faraone Merneptah, ciò che la Bibbia dice concorda, nelle grandi linee, con ciò che i testi e l'archeologia ci insegnano sulla discesa di gruppi semitici in Egitto, sull'amministrazione egiziana del Delta del Nilo, sullo stato politico della Transgiordania.

Con le riserve che impongono l'insufficienza delle indicazioni della Bibbia e l'incertezza della cronologia extra-biblica, si potrà dire che Abramo visse in Canaan verso il 1850 a.C.; che Giuseppe fece carriera in Egitto e che altri «figli di Giacobbe» lo raggiunsero un po' dopo il 1700.

Per la data dell'esodo, non possiamo fidarci delle indicazioni cronologiche di 1 Re 6,1 e Gdc 11,26, che sono secondarie e provengono da computi artificiosi. Ma la Bibbia contiene una indicazione precisa: secondo il testo antico di Es 1,11, gli ebrei hanno lavorato alla costruzione delle città-deposito di Pitom e di Ramses. L'esodo è dunque posteriore al regno di Ramses II, che fondò la città di Ramses.

I grandi lavori vi cominciarono dall'inizio del suo regno ed è verosimile che l'uscita del gruppo di Mosè ebbe luogo nella prima metà o verso la metà di questo lungo regno (1290-1224), diciamo verso il 1250 a.C. o poco prima.

Se si tiene conto della tradizione biblica su un soggiorno nel deserto durante una generazione, l'installazione in Transgiordania si potrebbe collocare verso il 1225 a.C.

Queste date sono conformi alle informazioni della storia generale sulla residenza dei faraoni della dinastia XIX nel delta del Nilo, sull'indebolimento del controllo egiziano in Siria-Palestina alla fine del regno di Ramses II, sui turbamenti che scossero tutto il vicino Oriente alla fine del sec. XIII. Esse si accordano con le indicazioni dell'archeologia sull'inizio dell'età del ferro, che coincide con l'installazione degli israeliti in Canaan. Il decalogo, le «dieci parole» scritte sulle tavole del Sinai, promulga la legge fondamentale, morale e religiosa, dell'alleanza.

Esso è dato due volte (Es 20,2-17 e Dt 5,6-18) con varianti abbastanza notevoli: questi due testi risalgono a una forma primitiva, più corta, la cui origine mosaica non è contraddetta da nessun argomento valido.

https://www.youtube.com/watch?v=vv23O7yzrYU

Don Doglio – Le antiche tradizioni di Israele

LEVITICO


Il Levitico, di carattere quasi unicamente legislativo, interrompe il racconto degli avvenimenti. Contiene:

1-7: un rituale dei sacrifici;

8-10: il cerimoniale di investitura dei sacerdoti, applicato ad Aronne e ai suoi figli;

11-15: le regole relative al puro e all'impuro, che si concludono con il rituale del grande giorno dell'espiazione;

17-26: la «legge di santità», che include un calendario liturgico, e termina con benedizioni e maledizioni.

A mo' di appendice, il c. 27 precisa le condizioni per il riscatto delle persone, degli animali e dei beni consacrati a Jahve.

NUMERI

I Numeri riprendono il tema del cammino nel deserto.

La partenza dal Sinai si prepara con il censimento del popolo (1-4) e le grandi offerte fatte per la dedicazione della tenda (7). Dopo la celebrazione della seconda pasqua, si abbandona la montagna santa (9- 10) e si arriva per tappe a Qadesh dove è fatto un tentativo infelice di penetrare in Canaan dal sud (11-14).

Dopo il soggiomo a Qadesh, ci si rimette in cammino e si giunge alle steppe di Moab, davanti a Gerico (20-25). I madianiti sono vinti e le tribù di Gad e di Ruben si fissano in Transgiordania (31-32). Una lista riassume le tappe dell'esodo (33).

Intorno a questi racconti sono raggruppati ordinamenti che completano la legislazione del Sinai o che preparano l'installazione in Canaan (5-6; 8; 15-19; 26-30; 34-36).

DEUTERONOMIO

l titolo “Deuteronomio” deriva dal greco e significa “seconda legge” o “ripetizione della legge”. Ormai, tutta la generazione che era uscita dall’Egitto e aveva ricevuto i Dieci comandamenti sul monte Sinai era morta durante i quarant'anni nel deserto. Una nuova generazione si stava preparando ad entrare in Canaan, la Terra Promessa, perciò la ripetizione non era certo superflua. Nel Deuteronomio, la legge viene descritta nel suo insieme e, in qualche modo, spiegata. Da quel momento in poi, sarebbe stata applicata in un contesto di vita diverso, non più nomade, ma di tipo stanziale, in quanto il popolo si sarebbe stabilito nel paese di Canaan. Il nuovo assetto avrebbe comportato delle piccole modifiche della legge in vigore, con lo scopo di adattarla all'inedita situazione.

Il libro può essere suddiviso in tre parti principali, seguite da alcuni capitoli conclusivi di tipo storico

La prima parte (capitoli 1-4) è sostanzialmente un excursus storico, nel quale vengono ricordati i punti salienti del viaggio compiuto nel deserto dalla generazione precedente. Mosè non trascura di far presenti anche i benefici che Dio ha elargito in quel lungo periodo di pellegrinaggio

Nella seconda parte (capitoli 5-26), si trovano una ripetizione dei Dieci comandamenti, con annesse raccomandazioni a non dimenticarli, ed una ricapitolazione di tutti i principi morali e spirituali stabiliti da Dio. Se avesse messo in pratica le leggi di Dio, il popolo avrebbe goduto delle benedizioni promesse; quando se ne fosse allontanato, gli sarebbero toccate disgrazie, persecuzioni, esilio. I princìpi che leggiamo nel Deuteronomio si sono poi dimostrati veri in tutta la storia del popolo eletto da Dio.

La terza sezione (capitoli 27-28) può essere considerata come una conclusione delle parti precedenti. Troviamo qui l’ordine di scolpire le parole della legge sul monte, una proclamazione di benedizioni e maledizioni (come risultato dell’ubbidienza o della disubbidienza) e il rinnovo del patto che Dio aveva stipulato con il suo popolo.

I capitoli seguenti possiamo considerarli come un’appendice storica. Mosè indicò pubblicamente come suo successore Giosuè e le ultime istruzioni furono rivolte ai leviti e ai sacerdoti, affinché leggessero periodicamente al popolo le parole della legge.

Nei capitoli 32 e 33, Mosè riporta un canto e una benedizione: con il primo, egli illustra l’amore del Signore verso il suo popolo e descrive Dio come una Rocca, un fondamento sicuro; con la benedizione che rivolge ad Israele, si comporta come un padre che, prima di morire, benedice i suoi figli.

L’ultimo capitolo, il 34, è il commovente racconto della sua morte.

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Don Doglio - Deuteronomio


I LIBRI STORICI 

I libri storici sono quei libri dell'Antico Testamento che narrano la storia del popolo d'Israele dalla conquista della Terra Promessa sotto la guida di Giosuè (XII secolo a.C.) fino alla rivolta maccabaica e al governo della dinastia asmonea (con Giovanni Ircano I, nel 134 a.C., primo libro dei Maccabei).

Gli Ebrei li denominano "profeti anteriori".

I libri storici sono libri molto diversi quanto a origine e genere letterario e hanno, nella Bibbia differenti collocazioni. Seguono i libri del Pentateuco e sono seguiti dai libri sapienziali. Cominciamo col prendere in

considerazione i libri immediatamente successivi al Pentateuco ( Giosuè, Giudici, Samuele e Re) perché tutti questi libri sono stati redatti, come il Deuteronomio, da un filone profetico- didattico con l'intento di insegnare alle nuove generazioni la dottrina.

La definizione " Libri storici" non significa che sono storici come noi oggi intendiamo la storia, cioè "Indagine o ricerca critica relativa a una ricostruzione ordinata di eventi umani reciprocamente collegati secondo una linea unitaria di sviluppo e col supporto di documenti scritti o reperti archeologici databili".

I libri storici della Bibbia sono definiti tali perché raccontano storie, con intento didattico catechetico.



GIOSUÈ

Prima di parlare di Giosuè dobbiamo ricordare che questo libro é un racconto catechistico per le nuove generazioni che non avevano conosciuto la tragedia della deportazione in Babilonia, e non avevano nemmeno conosciuto per esperienza diretta Gerusalemme, il regno, il Tempio.

Questi libri furono redatti appunto durante l'esilio e immediatamente dopo, al ritorno del popolo nella loro terra dopo l'editto di Ciro,(VI-V sec a.C) mentre il racconto é ambientato nel 1300- 1200 a.C.

Questi testi, (e altri simili nell’Antico Testamento) devono essere interpretati come scritti antichi e “immaturi”, in cui si presenta una teologia “imperfetta”, in via di maturazione: il vertice è Cristo e la sua rivelazione è fonte della nostra salvezza. L’Antico Testamento ci ricorda il lungo cammino storico che Dio con pazienza ha fatto fare al popolo di Israele per condurlo dall’idea violenta iniziale alla rivelazione piena del Dio-Amore. Per questo i Padri leggevano le pagine difficili dell’Antico Testamento in modo allegorico, vedendo - ad esempio - nei "nemici" i peccati da distruggere.

Il libro di Giosuè racconta della conquista del territorio di Canaan da parte degli Israeliti, di come essi si allontanassero da Dio e come Egli, quando veniva invocato, li liberasse puntualmente. Purtroppo queste liberazioni non erano durature a causa della continua ricaduta nel peccato da parte del popolo di Israele. Dio aveva dato la terra agli Israeliti con un patto incondizionato. Ad Abramo aveva detto: «A te e alla tua discendenza dopo di te darò il paese dove abiti come straniero: tutto il paese di Canaan, in possesso perenne; e sarò il loro Dio» (Genesi 17,8)

Ciononostante, il possesso della terra era condizionato: bisognava combattere per conquistarla. Essi dovettero combattere le battaglie e prendere possesso dei nuovi territori. E, come Giosuè ricordò loro nel suo ultimo discorso prima di morire, la loro ubbidienza alla Parola di Dio avrebbe determinato il possesso duraturo della terra.

Giosuè, il cui nome significa “Dio salva”, fu il successore di Mosè ed un gran condottiero. Nato schiavo in Egitto, aveva quarant’anni al tempo dell’esodo dal paese della schiavitù, ottanta quando ricevette il mandato come successore di Mosè e centodieci al momento della sua morte. A Cadesh-Barnea, fu uno dei dodici uomini che andarono in missione ad esplorare il paese di Canaan e uno degli unici due che ritornarono con un rapporto favorevole, nella piena fiducia che Dio avrebbe dato loro la terra. Fu un uomo di coraggio, che dipendeva da Dio, una guida, un uomo di fede, caratterizzato da entusiasmo e fedeltà.

I primi cinque capitoli del libro ci descrivono la preparazione alla conquista della terra promessa. L’attraversamento del fiume Giordano, per entrare nella terra di Canaan, rappresentò il principale punto di svolta della fede degli Israeliti. Per miracolo di Dio, l'acqua che scorreva nel fiume si fermò, permettendo così al popolo di attraversarlo e raggiungere la terra promessa. Quasi quarant’anni prima, i figli di Israele avevano affrontato una situazione simile, attraversando il Mar Rosso mentre erano in fuga dall’Egitto, per nascondersi nel deserto del Sinai. Ma invadere la terra di Canaan attraversando il fiume Giordano richiese molta più fede, perché, se attraversare il Mar Rosso per loro aveva significato la salvezza dall'esercito egiziano, attraversare il Giordano, invece, significava andare volontariamente a fronteggiare le popolazioni bellicose che occupavano il paese.

Nei capitoli da 6 a 12 leggiamo la storia della conquista del paese. Un passo importante fu la conquista di Gerico che venne espugnata seguendo gli ordini precisi dati da Dio. L'intera vicenda, che tra l'altro è davvero avvincente, dimostra ancora una volta che nulla è impossibile a Dio, persino far crollare una città fortificata senza utilizzare nemmeno un'arma. In realtà Gerico era già distrutta quando il popolo entro nella terra di Canaan, ma le su rovine erano così imponenti che il redattore scrisse il romanzo avvincente di Dio che aveva combattuto e distrutto la città al posto loro.

Dal capitolo 13 al 22, troviamo la ripartizione delle terre conquistate, mentre negli ultimi due capitoli leggiamo le esortazioni di Giosuè al popolo che aveva guidato alla conquista del paese.

Non ci furono solo vittorie, ma anche disubbidienze e sconfitte. Il libro di Giosuè mostra che, ogni volta che gli Israeliti facevano affidamento sulle proprie forze anziché su Dio, i risultati erano disastrosi, come pure quando permettevano che il peccato entrasse nella loro vita. Questo scritto ci presenta la fedeltà di Dio, che diede ad Israele la terra promessa, ma anche il parziale fallimento di Israele, che non riuscì a prenderne possesso pienamente.

Il concetto chiave del libro di Giosuè non è la vittoria, bensì che è Dio che dà la vittoria. Infatti leggiamo quasi sul finale del libro:

«E il SIGNORE diede loro pace da ogni parte, come aveva giurato ai loro padri; nessuno di tutti i loro nemici poté resistere davanti a loro; il SIGNORE diede loro nelle mani tutti quei nemici. Di tutte le buone parole che il SIGNORE aveva dette alla casa d'Israele non una cadde a terra: tutte si compirono» (Giosuè 21,44-45).

https://www.youtube.com/results?search_query=don+doglio+giosu%C3%A8. Don Doglio – Giosuè


GIUDICI

Il libro assume il nome dai protagonisti chiamati appunto Giudici che erano dei capi militari e civili suscitati da Dio, in determinate occasioni, per liberare alcune tribù israelitiche dall’oppressione dei popoli confinanti.

Il termine Giudici, in ebraico, ha più significati e tra questi anche governatori e in certi casi anche salvatori.

Il periodo di ambientazione delle vicende dei Giudici va da circa al 1200 (dalla morte di Giosuè) al 1020 a.C. circa, essendo questa la data della costituzione della monarchia in Israele. I Giudici più famosi furono Eud, Debora e Barak, Gedeone, Iefte, Sansone.

La redazione finale risale al periodo esilico.

Si può suddividere il libro dei Giudici in tre parti:

1.Capitoli 1,1-2,5: in cui si narra l’occupazione lenta, difficile, parziale ed eseguita in modo disordinato della Terra Promessa da parte delle varie tribù e i capitoli 2,6-3,6 in cui si narra l’infedeltà di Israele verso il suo Dio;

2.Capitoli 3,7-16,31: in cui vengono narrati alcuni episodi che riguardano singoli Giudici;

3.Capitoli 17-21: suddivisi in due appendici che mostrano la situazione di anarchia in Israele prima dell’instaurazione monarchica. Un’appendice narra le origini del Santuario di Dan e la migrazione dei Daniti (capitoli 17-18); la seconda racconta la deplorevole condotta degli abitanti di Gabaa e la guerra che le tribù fecero contro Beniamino che si rifiutava di punire i colpevoli (capitoli 19-21).

Il libro dei Giudici è un’opera suscitata dalla fede d’Israele. Il popolo ha un’unica convinzione: Dio lo sostiene nei momenti difficili. Israele è consapevole di aver fatto ciò che è male agli occhi del Signore (2,11; 3,7.12; 4,1; 6,1; 10,6; 13,1) di aver abbandonato il Signore per servire Baal e le Astarti (2,1.13; 3,7; 10,6). Israele, però, conosce anche profondamente l’infinita pazienza di Dio: gridarono al Signore (3,9.15; 4,3; 6,6;10,10) il quale risponde alla supplica, suscitando degli uomini liberatori animati dallo Spirito (3,10; 6,34; 11,29; 13,25; 14,6.19; 15,14). Questi Giudici sono la prefigurazione del re che, con lo Spirito del Signore, deve dirigere il popolo con giustizia; ma nello stesso tempo il re è la prefigurazione del Messia sul quale sarebbe disceso lo Spirito dai molteplici doni (11,2).

https://youtu.be/HuAgUbcufJc

Don Doglio – Gedeone


1 e 2 SAMUELE

Questi due libri prendono il nome da Samuele, ultimo giudice d’Israele, che visse attorno all’anno 1000 a.C. Fu lui che, come profeta di Dio, conferì l’unzione regale a Saul e, dopo di lui, a Davide. Samuele segna, dunque, il passaggio dalla fine del periodo dei giudici all'istituzione della monarchia.

La storia di Samuele si trova nel primo libro.

Il racconto è affascinante, con tre personaggi principali: Samuele, Saul e Davide, le cui storie si intrecciano e si sovrappongono.

Le vicende raccontate all’inizio del primo libro di Samuele si riferiscono al tempo dei Giudici. Erano passati più di quattrocento anni dalla conquista di Canaan, e come si può leggere nel libro dei Giudici, il popolo si trovava in una condizione di degenerazione. La decadenza morale e spirituale del popolo era il riflesso del declino del sacerdozio.

Ai tempi del sacerdote Eli, la parola di Dio era “rara” come leggiamo in 3,1. Non c’erano uomini degni a cui Dio potesse affidare il suo messaggio, allora il Signore si rivolse a un bambino, il piccolo Samuele, che era pronto ad ascoltare. Dio si rivelò a lui e tutto Israele gli riconobbe questo privilegio (3,20-21).

In quel periodo buio della storia d’Israele, sotto la minaccia dei vicini Filistei, Samuele fu l’unico ad ascoltare e trasmettere il messaggio del Signore.

Al capitolo 8 troviamo l'inizio del racconto della nascita del regno d'Israele. L’avvento della monarchia segnò una nuova fase della storia di Israele, che sarebbe durata oltre quattro secoli.

Il popolo cominciò a chiedere un re, mentre Samuele cercava invano di far capire loro che, così, stavano respingendo Dio - ricordiamo che fino ad allora sul popolo di Israele vigeva la teocrazia, il regno di Dio. Il Signore comunque, accettò la loro richiesta e il profeta fu incaricato di ungere un re.

Fu scelto Saul, della tribù di Beniamino, un uomo alto, di bell’aspetto ed umile, che iniziò brillantemente il suo regno ottenendo una vittoria sugli Ammoniti.

Purtroppo l’umiltà di Saul fu sopraffatta dal suo orgoglio: l’impazienza nell’attendere la guida divina e la disubbidienza danneggiarono il suo rapporto con Dio.

Al capitolo 16 leggiamo di come Samuele, per ordine di Dio, andò a cercare Davide e lo unse re.

Quella dell’unzione era un’usanza di carattere sacro in Israele e riguardava tre categorie di persone: i sacerdoti, i re e i profeti. Il gesto dell’unzione voleva dire che il destinatario doveva svolgere un servizio per Dio. Davide era un semplice pastore, di bell’aspetto e molto coraggioso, amava la musica ed era fedele al suo Dio. Al capitolo 17, leggiamo come il suo coraggio e lo zelo per Dio si manifestarono pubblicamente con la vittoria riportata su Golia, un guerriero filisteo dalla statura gigantesca.

Al capitolo 18, vediamo come Davide diventò oggetto della gelosia e dell’odio di Saul e fu costretto a fuggire.

Nei capitoli successivi fino al 30, vengono raccontati gli anni di sofferenza e di privazioni in cui la sua fede fu messa a dura prova.

Durante il periodo in cui dovette fuggire e nascondersi, il timor di Dio non venne meno in Davide, che per ben due volte risparmiò la vita a Saul, sapendo che la vendetta per tutto quello che stava subendo non gli apparteneva.

Poi, però, la fede di Davide cominciò a vacillare ed egli si rifugiò presso i Filistei, rendendosi anche colpevole del massacro di vittime innocenti. In quel periodo, egli non agì giustamente e fece, a volte, delle scelte sicuramente poco opportune.

Nel capitolo 31 di 1 Samuele, i Filistei attaccarono l’esercito di Saul, causando anche la morte in battaglia del re e di suo figlio Gionata. Davide ne fu profondamente addolorato, anche e soprattutto per la forte amicizia che lo legava a Gionata.

Con questi avvenimenti si conclude il primo libro di Samuele.

https://youtu.be/CJ77nV9LNFs

Don Doglio Conosciamo la Bibbia-Samuele

https://youtu.be/eMSZbdJlt2M

Don Doglio Conosciamo la Bibbia - Saul


Il regno di Davide costituisce l’argomento principale del secondo libro di Samuele.

Il primo libro raccontava di Davide perseguitato e fuggiasco; il secondo lo mostra come re di Giuda per sette anni (capitoli 1-4) e poi di tutto Israele, per trentatrè anni.

Il Signore condusse il suo servo Davide di vittoria in vittoria (capitolo 5), pur continuando a correggerlo e ad ammaestrarlo (capitoli 6-10).

Nel capitolo 11, dopo tante vittorie arrivò una sconfitta, ma non si trattò di una sconfitta militare o politica, bensì di una sconfitta morale. Davide fu protagonista di una triste storia di adulterio, che cercò di nascondere organizzando addirittura un omicidio. Egli aveva però trascurato un particolare: Dio conosce ogni cosa. Davide confessò il suo errore e ritrovò la comunione perduta con il suo Dio.

Però, le amare conseguenze, nella vita di Davide e nella sua famiglia, non avrebbero tardato ad arrivare: lacrime, lutto, omicidi e aperta ribellione avrebbero segnato le pagine della sua storia.

Davide fu costretto a fuggire da suo figlio Assalonne, autore di un colpo di stato. In questi capitoli burrascosi, dal 15 al 20, leggiamo come Davide riconquistò a poco a poco il terreno perduto in Israele, ristabilendo l’unità della nazione.

I capitoli conclusivi sono tutti pervasi da un clima di trionfo: sono registrati atti eroici e gloriose vittorie ottenute grazie alla devozione di soldati fedeli.

Alla fine di 2 Samuele, Davide è arrivato alla fine della sua vita, i cui ultimi giorni saranno poi raccontati nei primi due capitoli del primo libro dei Re, mentre la sua opera sarà continuata da Salomone, che Dio eleverà a una gloria senza precedenti nella storia d’Israele.


https://youtu.be/cmcceqvlp-c

Don Doglio - Davide I parte

https://youtu.be/pSCk28NbTFo

Don Doglio Davide Ii

https://youtu.be/cW3HKKuyxhE

Don Doglio Davide III


1 e 2 RE

I Libri dei Re seguono immediatamente i libri di Samuele; ed il 1Re 1-2 contiene la conclusione del grande documento del Secondo libro di Samuele 9-20.

Il lungo racconto del regno di Salomone (1Re 3-11) descrive dettagliatamente l'eccellenza della sua saggezza, lo splendore delle sue costruzioni, soprattutto del tempio di Gerusalemme, la vastità delle sue ricchezze. È un'epoca gloriosa, certo, ma lo spirito conquistatore del regno di Davide è sparito: si conserva, si organizza, soprattutto si produce. L'opposizione tra le due frazioni del popolo continua e, alla morte di Salomone, nel 931, il regno si divide: le dieci tribù del nord fanno una secessione aggravata da uno scisma religioso (1Re 12-13).

La storia parallela dei regni d'Israele e di Giuda si sviluppa dal capitolo 14 del Primo libro dei Re al capitolo 17 del secondo libro dei Re: spesso è la storia delle lotte tra i due regni fratelli, come anche degli assalti esterni dell'Egitto contro Giuda e degli Aramei nel nord. Il pericolo diventa più grave quando gli eserciti assiri intervengono nella regione, prima nel IX secolo a.C., con più forza nel VIII secolo a.C., quando Samaria cade sotto i loro colpi nel 721 a.C., mentre Giuda si è già dichiarato vassallo. La storia di Giuda continua sola fino alla caduta di Gerusalemme nel 587 a.C. nel 2Re 18,25-31.

Il racconto si estende soprattutto su due re, quello di Ezechia (2Re 18-20) e quello di Giosia (2Re 22), caratterizzati da un risveglio nazionale e da una riforma religiosa. I grandi eventi politici del momento sono: l'invasione di Sennàcherib sotto Ezechia nel 701 a.C., in risposta al rifiuto del tributo assiro e, sotto Giosia, la rovina dell'Assiria e la formazione dell'impero caldeo. Giuda dovette sottomettersi ai nuovi padroni dell'Oriente, ma si rivoltò ben presto. Il castigo non tardò: nel 597 a.C. gli eserciti di Nabucodonosor conquistarono Gerusalemme e deportarono una parte dei suoi abitanti; dieci anni dopo, un rigurgito di indipendenza causò un nuovo intervento di Nabucodonosor, che si concluse nel 587 a.C. con la distruzione di Gerusalemme e una seconda deportazione. I Libri dei Re terminano con due brevi appendici (2Re 25,22-30).

L'opera cita espressamente tre delle sue fonti: una storia di Salomone; gli annali dei Re d'Israele; gli annali dei Re di Giuda.

Sicuramente però l'opera ne ebbe anche altre: oltre la fine del grande documento davidico (1Re 1-2), una descrizione del tempio, di origine sacerdotale (1Re 6-7); soprattutto una storia di Elia composta verso la fine del IX secolo a.C., e una storia di Eliseo un po' posteriore; queste due storie sono alla base dei cicli di Elia (1Re 17 e Secondo libro dei Re) e di Eliseo (2Re 2-13). I brani sul regno di Ezechia in cui appare Isaia (2Re 18,17-20,19) provengono dai discepoli di questo profeta.

Quando non si ha l'utilizzazione delle fonti, gli avvenimenti sono presentati secondo uno schema uniforme: ciascun regno è trattato separatamente e completamente, gli inizi e la fine del regno sono segnati con formule quasi costanti, dove

non manca mai un giudizio sulla condotta religiosa del re. Tutti i re d'Israele (che si separò da Giuda alla morte di Salomone), sono condannati a causa del "peccato d'origine" di questo regno, la fondazione del santuario di Betel; tra i re di Giuda, otto soltanto sono lodati per la loro fedeltà in genere ai precetti di JHWH. Ma questa lode per sei volte è limitata dall'annotazione che "le alture non scomparvero"; solo Ezechia e Giosia ricevono una lode senza riserve.

Questi giudizi si ispirano evidentemente alla legge del Deuteronomio sull'unità del santuario. C'è anche di più: la scoperta del Deuteronomio sotto Giosia e la riforma religiosa che essa ispira sono il punto culminante di tutta questa storia, e l'intera opera è una dimostrazione della tesi del Deuteronomio, che è ripresa nel 1Re 8 e nel 2Re 17: se il popolo osserva l'alleanza conclusa con Dio, sarà benedetto; se la trasgredisce, sarà castigato. Quest'influsso deuteronomista si ritrova nello stile, ogni volta che il redattore sviluppa o commenta le sue fonti.

Questi libri sono stati redatti durante e subito dopo l'esilio.

I Libri dei Re devono essere letti nello spirito con cui sono stati scritti, come una storia di salvezza: l'ingratitudine del popolo eletto, la rovina successiva delle due frazioni della nazione sembrano mettere in scacco il piano di Dio; ma c'è sempre, a salvare l'avvenire, un gruppo di fedeli che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal, un resto di Sion che si mantiene fedele all'alleanza. La stabilità delle risoluzioni divine si manifesta nella sorprendente permanenza della discendenza davidica, depositaria delle promesse messianiche, e il libro, nella sua forma ultima, si chiude con la grazia fatta a Joiachìn, come con l'aurora di una redenzione.

https://youtu.be/XCo2kXiGpWs

Don Doglio Salomone

https://youtu.be/O9mTEoJFvtI

Don Doglio Elia 01

https://youtu.be/iQwsRq7JZGA

Don Doglio Elia 2


1 e 2 CRONACHE

Il titolo ebraico delle Cronache che, come Samuele e Re, formavano originariamente un solo libro, significa, tradotto letteralmente "fatti dei giorni", cioè Annali. I traduttori della Bibbia in greco (detta dei Settanta), divisero le Cronache in due parti.

S. Girolamo ha chiamato questi libri "una cronaca di tutta la storia divina" poiché offrono insieme con Esdra e Neemia un compendio della storia sacra.

Sono scritti in ebraico e, secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata attorno al 330-250 a.C. in Giudea. Rappresentano una rielaborazione della storia degli Ebrei già narrata negli altri libri storici.

Il primo libro è composto da 29 capitoli contenenti varie genealogie da Adamo a Davide e la descrizione del suo regno (fino al 970 a.C. circa).

Il secondo libro è composto da 36 capitoli descriventi il regno di Salomone e la storia del regno di Giuda, la sua distruzione, l'esilio babilonese e il ritorno (dal 970 circa al 538 a.C.).

Lo scopo dell'opera non è il resoconto storico, ma l'edificazione. Ha un proposito distintamente didattico ed esortativo, adatto eminentemente allo scriba sacerdotale o maestro.

Confrontate con Samuele-Re, le Cronache presentano notevoli differenze. Il loro interesse è per il tempio di Gerusalemme ed il culto. Per questa ragione la storia prima di Davide, ad eccezione della morte di Saul, e la storia del Regno del Nord (dopo lo scisma del 926 o 922 a. C.) non sono narrate. Davide è presentato come il padre spirituale del Tempio. Altre figure principali sono Salomone (costruttore del Tempio), ed Ezechia (ca. 715.687), e Giosia (ca. 639-609) come re riformatori. Di Davide si tacciono il peccato e le sventure familiari (cf. 2 Sa. 9,20) né si parla della poligamia di Salomone o dei suoi contrasti che precedettero la sua successione al trono.

Cronache presenta un'interpretazione distintiva del carattere dei re davidici. Vengono messe in rilievo con grande dettaglio solo le qualità positive di Davide e Salomone.

Cronache, come la maggior parte dell'Antico Testamento, è ordinato per temi più che cronologicamente. Il tema di fondo del libro delle cronache è la legittimità della comunità di fede post-esilica.

La storia è trattata dal punto di vista della remunerazione divina che ha luogo già su questa terra in maniera quasi meccanica; ad ogni azione buona segue la ricompensa, mentre ogni disgrazia deve essere preceduta dalla colpa. Inoltre le cronache prediligono le genealogie e le statistiche con cifre spesso iperboliche.

C'è una forte sottolineatura in Cronache dell'unità della nazione. Il cronista omette regolarmente materiale che potrebbe compromettere l'idea di un'accettazione unanime della dinastia davidica (1 Cr. 11,1).

È l'intera nazione che trasporta l'Arca a Gerusalemme (1 Cr. 13,5); ed è l'intera nazione che partecipa agli atti di culto e di intercessione (es. 2 Cr. 20,4).

Il libro delle Cronache è strettamente associato a quelli di Esdra e Neemia, in quanto questi libri hanno in comune una prospettiva "sacerdotale".

Difficili da trovare sono prove inconfutabili sulla data della sua composizione, ma una data del libro intorno al 400 a. C. è ragionevole.


 ESDRA

In seguito alla distruzione del regno settentrionale di Israele nel 722 A.C. la popolazione fu dispersa in tutto il mondo antico e se ne persero le tracce.

La regione fu invasa dagli Assiri e da altri popoli stranieri, divenuti poi i Samaritani del tempo di Gesù.

Quando invece cadde il regno meridionale di Giuda nel 587 A.C. quasi tutta la popolazione fu fatta prigioniera e deportata in esilio in Babilonia. Trovandosi radunati in un sol luogo, i prigionieri poterono conservare la loro identità nazionale.

Anche se la vita in esilio era dura, il pensiero e il ricordo di Gerusalemme li sostenne durante tutto questo periodo, fino a quando Ciro, re di Persia, concesse loro il permesso di rientrare.

I re di Persia furono in generale molto liberali con i culti dei popoli conquistati: si mostrarono tolleranti e addirittura rispettosi.

Così il giudaismo, anche in esilio, beneficiò di un favore speciale: il Dio degli Ebrei, designato sempre come “Dio del cielo” negli atti ufficiali, poteva essere messo sullo stesso piano del dio supremo dei grandi re pagani.

Il Libro di Esdra inizia con l’editto di Ciro che autorizza il popolo di Giuda a far ritorno in patria. Esdra era uno degli incaricati a guidare un gruppo di esiliati nel viaggio di ritorno per ristabilirsi nella loro terra.

Questa prima ondata di rimpatriati, che giunsero in Palestina verso il 530 A.C., dovette affrontare mille difficoltà. Dovevano ricostruire le città, costruire nuove mura, dissodare nuovamente la terra, costruire case, in breve rifarsi una nuova vita; il tutto tra le ostilità delle popolazioni che nel frattempo si erano insediate nella regione.

Fu ricostruito anche il Tempio, che fu dedicato nel 516 A.C.

Esdra, di ritorno da Babilonia con un nuovo gruppo di esiliati, fu allarmato nel trovare il gruppo venuto in precedenza tanto scoraggiato. Egli attuò una riforma religiosa e per un certo tempo la vita fu più tollerabile.

Il valore religioso del libro sta in questo insegnamento: anche se la vita non è sempre facile, può tuttavia essere vissuta bene con l’aiuto di Dio.

Le lotte che dovette affrontare il popolo di Dio sembravano insuperabili, ma giorno per giorno riuscì a superarle. La sua forza veniva dal Signore.

Lo schema del libro è il seguente:

1) Editto di Ciro 1,1-11

2) Censimento della popolazione 2,1-70

3) Ricostruzione del Tempio 3,1-6,22

4) Ritorno di Esdra 7,1-10,44


NEEMIA

Questo libro per certi aspetti è parallelo a quello di Esdra.

Neemia era un funzionario molto stimato alla corte del re di Persia, ma era anche impegnato nei confronti della sua nazione e del suo popolo.

Venuto a conoscenza delle difficoltà in cui versavano i rimpatriati in Palestina, chiese al re il permesso di andare a Gerusalemme per aiutarli.

La sua preoccupazione maggiore era la ricostruzione delle mura, senza le quali la città restava indifesa.

Neemia doveva essere un uomo molto energico e con un carattere carismatico, poichè nell’arco di 52 giorni le mura furono ricostruite.

Egli tuttavia non trovò distrutte solo le mura, ma anche la vita della popolazione. C’era un diffuso scoraggiamento, i comandamenti di Dio erano trasgrediti e il lassismo era penetrato anche tra i sacerdoti.

La situazione non era migliore di quanto lo fosse prima della catastrofe dell’esilio.

Neemia quindi ritenne assolutamente necessario adottare provvedimenti concreti per porre rimedio a tale situazione.

I provvedimenti consistevano in una radicale riforma religiosa e morale che doveva riportare il popolo, gli stranieri che abitavano nella regione e i sacerdoti a vivere secondo i comandamenti di Dio.

In questo libro troviamo due temi significativi:

1) il pericolo di scivolare indietro è sempre in agguato. Bisogna stare sempre all’erta..

2) Dio per la sua opera utilizza persone che non sono necessariamente della stessa indole. Esdra e Neemia erano caratteri molto diversi, ma Dio li utilizzò entrambi.

Schema del libro:

1) Ricostruzione delle mura di Gerusalemme 1,1-7,72

2) Pentimento del popolo 8,1-10,40

3) Riforma religiosa 11,1-13,32

Il “resto” di Israele. Dio ha promesso ad Abramo una discendenza “numerosa come le stelle del cielo” (Gen 15,5).

Ma le sconfitte militari, le invasioni straniere, le distruzioni, la diaspora e la deportazione in Babilonia, hanno spesso posto il problema della sopravvivenza del popolo di Israele, nonostante le divine promesse.

Tuttavia si incomincia a parlare di un “resto” che sopravviverà evocando speranza (Esd 9,8.13-15; Ne 1,2): questi superstiti costituiscono il “resto” risparmiato da Dio e identificato, dopo Ez 6,8-10 con i deportati di Babilonia (cf. Is 4,3ss).

I profeti fanno spesso riferimento a questo motivo di speranza, come Is 10,22 e Ger 11,23.

Il tema inizia ad essere presente in mezzo alle catastrofi politiche e militari del IX° secolo (cf. 1 Re 19, 15-18), ma ha dei precedenti: la vicenda di Noè (Gn 6,5ss.17ss; cf. Sir 44,17) e le sofferenze di Israele nel deserto, che provocano la morte di buona parte del popolo eletto (Es 32,28; Nm 17,16; 21,6; 25,9).

Dio mantiene sempre le sue promesse nonostante l’infedeltà del suo popolo.

Il libro di Neemia, come quello di Esdra, è di grande importanza per la storia della restaurazione giudaica dopo l’esilio.

Esdra è veramente il padre del giudaismo con le sue tre idee fondamentali: la stirpe eletta, il tempio, la legge. Neemia è al servizio delle stesse idee ma si muove su di un altro piano: nella Gerusalemme restaurata e ripopolata per la sua opera, egli offre al popolo la possibilità e il gusto di una vita nazionale.

La sua memoria ce lo fa conoscere sensibile e umano, pronto a pagare di persona, ma prudente e riflessivo, fiducioso in Dio che prega spesso. Lasciò di sè un grande ricordo e Ben Sira canta l’elogio di colui che “rialzò le nostre mura demolite” (Sir 49,13).

https://youtu.be/Gy6Ga_PKlhM

Don Piero Ongaretti Esdra e Neemia


RUT

Il libro é collocato nella Bibbia Cattolica subito dopo il libro dei Giudici, perché esordisce definendosi ambientato in quel tempo.

Abbiamo preferito però trattarlo insieme ad altri tre libri che narrano delle storie che hanno un intento edificante.

Narra una storia in apparenza bucolica e feriale, ma portatrice di un notevole messaggio teologico; la protagonista, straniera, diventa bisnonna del Re Davide. Ne viene fuori un annuncio dei valori della solidarietà, dell'impegno nei confronti dell'altro, dell'esercizio della giustizia, della capacità di scoprire l'opera di Dio nella vita corrente.

Il libro mostra cosa significa vivere secondo lo spirito oltre che la lettera dell'alleanza: ciò è espresso dalle scelte di Booz, l'uomo giusto che fa più di quello che la legge prescrive, e soprattutto da quelle di Rut, una straniera che aderisce ai valori più autentici del Giudaismo, senza necessariamente convertirsi ad esso.

Il Vangelo secondo Matteo include il nome di Rut nella genealogia di Cristo (1,5).

Il primo capitolo descrive la situazione di Noemi (mia dolcezza), che da Betlemme si reca con il marito Elimelec (Dio é re)e i due figli Maclon (digiuno) e Chilion (pelle e ossa), nella terra di Moab a causa di una carestia. Lì rimane vedova, e i suoi due figli si sposano con donne moabite. Muoiono poi anche i due figli. Avendo poi Noemi ricevuto notizia della fine della carestia, decide di tornare a Betlemme, e lascia perciò libere le nuore di rimanere nel proprio paese. Rut decide però di seguire Noemi.

A Betlemme Noemi è irriconoscibile per la sua stessa gente, e ad essi ella riassume brevemente la sua storia dicendo: "Non chiamatemi Noemi, chiamatemi Mara, perché l’Onnipotente mi ha tanto amareggiata!" (v. 20).

A Betlemme Rut spigola nei campi di Booz, parente del marito di Noemi (c. 2), e che può quindi, per un qualcosa di simile alla legge del levirato (cfr. Dt 25,5-10), sposare Rut per dare un figlio al marito defunto (c. 3).

Booz accondiscenderà, ma non senza prima offrire questa possibilità a un parente più stretto, in accordo alla legge di Mosè. Da questo matrimonio nasce Obed, che sarà nonno di Davide. Alla nascita del bambino Noemi esulta per aver anch'essa ricevuto un figlio (c. 4).

https://www.youtube.com/watch?v=CuMQaxdF05w

don Doglio Rut


TOBIA

Questa storia, ambientata nel VII secolo a.C. nella regione dell'Assiria nel periodo della cattività delle tribù del nord (721 - 612 a.C.[1]), concerne la storia di una famiglia ebraica della tribù di Neftali, deportata a Ninive, composta dal padre, Tobi, dalla madre Anna e dal figlio Tobia. Nella versione latina del testo padre e figlio hanno lo stesso nome, Tobias.

Condotto prigioniero in Assiria nella deportazione delle tribù del regno di Israele nel 722 a.C., il pio Tobi si prodiga ad alleviare le pene dei suoi connazionali in cattività (i primi due capitoli e mezzo sono narrati in prima persona).

Nel corso delle varie vicende perde il suo patrimonio, e, in seguito ad un atto di carità, anche la vista. Sentendo approssimarsi la propria fine, manda il figlio Tobia nella Media presso un parente, Gabael, a riscuotere dieci talenti d'argento lasciatigli in deposito. Cercando una guida per il cammino, incontra un connazionale che si offre di accompagnarlo, conoscendo bene la strada: in realtà, si tratta dell'arcangelo Raffaele, mandato da Dio ad aiutare la famiglia, sotto mentite spoglie.

Durante il viaggio, ad Ecbatana, Tobia sposa Sara, figlia del parente Raguele, liberandola dal demone Asmodeo che uccideva tutti gli uomini che avevano provato a sposarla, poiché, grazie alle indicazioni di Raffaele, utilizza, bruciandoli su di un incensiere, il cuore e il fegato di un pesce pescato durante il viaggio. Dopo la liberazione, in un titanico combattimento, Raffaele provvederà a legare il demone ad una montagna. Il nome Asmodeo deriva probabilmente da quello di Aeshma Deva, uno dei sette arcidiavoli dell'antica tradizione persiana.

Sempre grazie ad un consiglio di Raffaele, Tobia spalma sugli occhi del padre Tobi il fiele del pesce pescato, facendogli così riacquistare la vista. Solo alla fine del libro Raffaele si fa riconoscere dai due.

L'insegnamento di questa storia é la carità di Tobi, che viene infine ricompensare da Dio tramite l'arcangelo Raffaele

https://www.youtube.com/watch?v=xhcneAILXs0

Don Federico Tartaglia Tobia


GIUDITTA

Il libro di Giuditta, facente parte dei libri deuterocanonici dell'Antico Testamento, narra di una giovane vedova e devota ebrea di Betulia (città di ignota identificazione) che, grazie alla sua fede, alla sua bellezza e alla sua astuzia, salva la sua città dall'assedio in cui l'ha cinta Oloferne, generale di Nabucodonosor "re d'Assiria".( Nabucodonosor in realtà era il re dei babilonesi).

Un giorno il paese di Giuditta fu attaccato dall'esercito di Oloferne, generale di Nabucodonosor, che lo tenne in stato di assedio.

Per spezzare il lungo assedio della città, Giuditta si rivestì dei suoi abiti più belli e si recò nell'accampamento assiro, dichiarando di voler tradire la sua gente (svelando importanti segreti militari) in cambio della salvezza personale e del favore del generale Oloferne. Giuditta si trovava da tre giorni nel campo assiro quando Oloferne la invitò ad un banchetto. La donna incominciò a mangiare e a bere davanti al generale che si deliziò della sua presenza così da bere tanto vino quanto non ne aveva mai bevuto. Quando si fece buio i due rimasero soli. Giuditta, avvicinatasi alla colonna del letto, staccò la scimitarra che l’uomo aveva con sé, poi, accostatasi al letto gli afferrò il capo per i capelli... e con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo staccandogli la testa

Tale azione provocò lo smarrimento e la fuga degli assiri e di conseguenza, la liberazione di Betulia. Giuditta e tutto il popolo lodarono Dio per la liberazione.

Dopo la vittoria molti furono i pretendenti di Giuditta. Lei però preferì rimanere vedova piuttosto che passare a seconde nozze (fatto insolito questo per la concezione veterotestamentaria).

Il testo originariamente è stato scritto in ebraico, ma è stato conservato soltanto in greco ed è stato pubblicato verso la fine del II sec. a.C., al tempo dell'epopea maccabaica.

La narrazione è distribuita in tre parti: Nella prima, 1-3 è esposta la minaccia che grava sul popolo giudaico da parte dell'esercito assiro che è a servizio dell'empio re Nabucodonosor. La seconda parte, 4-8 descrive l'oppressione alla quale furono sottoposti i giudei che, stremati dalle forze, chiedono la capitolazione della città. Di contro Giuditta li esorta a continuare la resistenza. Nella terza parte, 9-16, viene narrata la liberazione ottenuta con l'ardito intervento di Giuditta, che recide la testa di Oloferne.

Il libro di Giuditta, come del resto quello di Tobia e quello di Ester, tratta con molta libertà i dati della storia e della geografia. Il racconto è situato sotto Nabucodonosor, che regnò sugli assiri a Ninive (Gdt 1,1). In realtà Nabucodonosor fu re di Babilonia e Ninive era già stata distrutta da suo padre Nabopolassar. Gli studiosi ritengono che l'autore sacro abbia moltiplicato volutamente le distorsioni e gli errori per sviare l'attenzione da un contesto storico preciso e attirare invece tutto l'interesse sul dramma religioso e sul suo epilogo.

Anche i nomi non sono tipicamente ebraici: Giuditta significa "giudea" ed è un nome che veniva dato agli stranieri; Oloferne e Bagoa (suo maggiordomo), portano nomi persiani.

Oltretutto, Oloferne viene identificato con le forze del male; Giuditta, che debella l'oppressore pagano con la fede, la preghiera e il digiuno, personifica invece l'ideale del popolo fedele al Signore. Dunque due campi ostili si trovano in lotta: quello di Dio e quello dei suoi nemici.

I luoghi attraversati dall'esercito di Oloferne e, la stessa località di Betulia, sono luoghi immaginari. Betulia, il cui significato è "casa di Dio", fa pensare alla città santa di Giuda.

Fatti, tempi e ambienti diversi sono fusi insieme in un unico racconto, che non ha una cornice storica ben precisa.

Sebbene dunque il racconto di Giuditta sia una storia fittizia, tuttavia intende offrire una lezione edificante esaltando la fierezza religiosa del popolo di Dio al cospetto dei suoi nemici; inoltre, il fatto che a salvare Betulia e i suoi abitanti sia stata una donna, sottolinea le risorse della divina provvidenza che si serve, per le sue grandi opere, di umili e inadatti strumenti (cfr. c. 9).

https://www.youtube.com/watch?v=84l8MKDX3_s&t=2546s

Il libro di Giuditta Don Barbaglia – Progetto Passio


 ESTER

Il libro di Ester racconta di fatti avvenuti al tempo del re persiano Serse, quello stesso che fu sconfitto dai greci a Salamina nella battaglia del 480 a.C., come racconta Erodoto nelle sue Storie.

Il genere letterario è quello della finzione letteraria. Il che non significa che il racconto sia falso, ma che contiene particolari funzionali alla trama, enfatizzazioni più che precise ricostruzioni storiche. Improbabili sono soprattutto certi dati numerici del libro: una festa di brindisi per l’intero esercito durata 180 giorni, la forca alta 25 metri che Aman fa costruire ed erigere in giardino, la morte di 75.000 persone nelle province dell’impero persiano.

La storia, in breve, è questa: Serse, dopo aver ripudiato la prima moglie che si era rifiutata di andare alla cerimonia di intronizzazione come regina, ordina che si cerchino in tutto l’impero le fanciulle più belle, perché possa scegliere quella che diventerà sua moglie. Tra le giovani che arrivano dalle varie province di Persia, si innamora di Ester, figlia adottiva di Mardocheo, un ebreo deportato da Gerusalemme al tempo del re babilonese Nabucodonosor. Ester, su consiglio di Mardocheo, non svela a Serse la sua origine, ma tiene celata la propria appartenenza al popolo di Israele. I due si sposano, Ester è dunque eletta regina e, da regina, non cambia il suo modo di vivere: nel proprio cuore, così come nei comportamenti esteriori, resta fedele agli insegnamenti ricevuti da Mardocheo, ai comandamenti del Dio di Israele (cf. Est 2,20).

Gelosi della promozione di Mardocheo, che ora presta servizio nel palazzo del re, due eunuchi tramano una congiura contro Serse per ucciderlo. Mardocheo la scopre, ne informa Ester, la quale a sua volta rivela tutto a Serse. La congiura viene così sventata e Serse fa annotare nelle cronache di corte il fatto, perché resti memoria del buon servizio di Mardocheo, pronto e affidabile.

Quindi nel racconto è introdotta un’altra figura: Aman, un funzionario di corte che stringe amicizia con Serse. I due passano molto tempo insieme, il re lo fa sedere al primo posto nei banchetti, e ordina che tutti quelli che vivono nel palazzo si prostrino davanti ad Aman. Mardocheo però non si inchina davanti ad Aman, il quale se ne accorge e, approfittando del favore che gode presso Serse, convince il re a decretare lo sterminio di tutti gli ebrei dell’impero. Serse, infatti, non sa che il suo funzionario Mardocheo e sua moglie Ester sono ebrei.

Mardocheo, appresa la notizia, è profondamente turbato, e chiede a Ester di intercedere presso il re a favore del loro popolo: è arrivato il momento di rivelare l’appartenenza a Israele, per salvarne la vita.

Ester sa che chiunque si presenti al re senza essere stato prima chiamato è reo di morte, secondo le leggi che vigevano allora nell’impero persiano, e sa che l’unica speranza di salvezza per il suo popolo è che lei infranga questo divieto, a rischio della propria vita.

Ester, “presa da un’angoscia mortale” (Est 4,17k), si rivolge al Signore, con parole come queste: “Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso all’infuori di te, perché un grande pericolo mi sovrasta … Da’ a me coraggio … Tu sai che mi trovo nella necessità e che detesto l’insegna della mia alta carica, che cinge il mio capo nei giorni in cui devo comparire in pubblico … La tua serva, da quando ha cambiato condizione fino a oggi, non ha gioito se non in te, Signore, Dio di Abramo” (Est 4,17).

Dopo tre giorni, Ester si riveste degli abiti più eleganti, prende con sé due ancelle, e si dirige verso la stanza del re: ha il viso lieto, ma il cuore oppresso dalla paura. Attraversate tutte le porte, si ferma davanti al re. Allo sguardo di lui, pieno di collera, Ester cade a terra, svenuta. Serse allora balza giù dal trono e, preso da un moto di dolcezza e insieme preoccupazione, la soccorre. La prende tra le braccia, finché lei non si rialza, e le dice: “Che c’è, Ester? Coraggio, tu non morirai, perché il nostro decreto è solo per la gente comune. Avvicìnati”. Ester, dopo ripetuti inviti del re, gli chiede la grazia di risparmiare il suo popolo, e accusa Aman, che manipola la politica imperiale per desiderio di potere, e che è l’ideatore dell’editto di sterminio contro gli ebrei. Serse ascolta la preghiera di Ester e fa redigere un contro-editto in cui si annulla l’ordine contro il popolo di Israele, e anzi dispone di punire quanti avessero cercato di far male ai figli di Israele. Così, grazie alla mediazione audace di Ester, il popolo ebraico è scampato a un massacro ormai imminente.

https://www.youtube.com/watch?v=rOn4Iaggp1o&t=85s

Il libro di Ester – Don Federico Tartaglia


1 MACCABEI

Il primo libro contiene la storia di un duro e glorioso periodo di storia giudaica, che va dall’avvento al trono di Siria di Antioco IV Epifane (175 a.C.), fino alla morte di Simone, ultimo fratello di Giuda Maccabeo (135 a.C.).

La storia, presentata secondo un ordine cronologico, comprende tre parti precedute da un’introduzione. I primi due capitoli descrivono l’espansione dell’empietà diffusasi a causa dell’ellenismo e contrastata dalla resistenza giudaica, guidata dal capo della dinastia asmonea, Mattatia.

La prima parte ( 3,1 - 9,22) è dedicata a Giuda, l’eroe per eccellenza, che dopo aver riportato brillanti vittorie sui generali di Siria, incomincia la purificazione del tempio, ristabilendo l’altare degli olocausti.

Nella seconda parte (9,23 - 12,54), il fratello e successore di Giuda, Gionata, grazie ad un’abile azione diplomatica, ottiene vari vantaggi religiosi, politici ed economici, però muore vittima dell’astuzia di Trifone.

La terza parte (13 - 16) tratta di Simone che, quale stratega, etnarca e sommo sacerdote, porta a termine l’opera dei fratelli.

L’autore del libro probabilmente era un giudeo-palestinese, proveniente da Gerusalemme, che ha scritto in ebraico verso il 100 a.C.; doveva essere un profondo conoscitore della topografia e geografia del suo paese, della letteratura biblica, dalla quale ha preso a prestito le forme letterarie, ed era uno scrupoloso osservante della legge mosaica, concepita come suprema manifestazione dell’alleanza. Egli per rispetto non ha nominato mai il nome di Dio, ma lo ha evocato usando il vocabolo “Cielo”. Favorevole agli Asmonei, è rimasto estraneo al conflitto che opponeva farisei e sadducei al potere.

Per comporre il libro si è servito di ricordi personali, in modo particolare per quanto riguarda le vicende di Giuda. Ha consultato i documenti scritti degli archivi ufficiali del tempio, anche se non gli sono mancate le fonti di origine pagana che narravano la storia e fissavano la cronologia del regno seleucide.

Secondo la concezione teologica, la lotta tra Israele e i pagani non ha coinvolto solamente gli Asmonei e i Seleucidi, i Giudei e i Greci, ma anche gli osservanti della legge e i suoi avversari. Morire con le armi in mano per la difesa della legge era un onore. Era permesso combattere per la legge anche in giorno di sabato. La fede in Dio produceva l’eroismo; il servizio della patria si confondeva con il culto per l’unico Dio. Il forte sentimento religioso nazionale, l’intransigenza della fede che sfociava nella passione eroica della libertà, se rappresentavano un positivo dato umano, lasciavano però apparire i limiti di una ristretta concezione politica-religiosa del popolo di Dio sulla terra.


2 MACCABEI

Il secondo libro dei Maccabei contiene i fatti che sono accaduti in Giudea dal 175 al 160 a.C. Esso non deve essere considerato la continuazione del primo, ma una presentazione particolare di fatti.

Il testo inizia con due lettere, 1, 1 - 2, 18, tradotte dall’ebraico o dall’aramaico, la prima delle quali è stata composta dopo la seconda. Queste due lettere intendevano convincere gli ebrei d’Egitto a celebrare insieme ai fratelli della Giudea la festa della Purificazione del tempio. Dopo una prefazione 2, 18-32 (in cui l’autore spiega le sue intenzioni e il metodo usato), vengono esposti 5 quadri, tutti centrati sull’importanza del tempio:

I° quadro ( c. 3) - Eliodoro apprende a proprie spese l’inviolabile santità della casa di Dio.

II° quadro ( cc. 4 - 7) - Dio punisce i sommi sacerdoti, i quali avevano accettato una politica filo ellenica, saccheggiando il santuario.

III° quadro (8, 1 - 10, 9) - Giuda Maccabeo vince i pagani e il tempio viene purificato.

IV° quadro (10, 10 - 13, 26) - Questa vittoria alla comunità giudaica farà ottenere la libertà di culto.

V° quadro (14, 1 - 15, 36) - Nicanore, bestemmiatore del tempio, viene umiliato e la sua testa esposta all’ingresso del santuario.

Nella conclusione del testo al cap. 15, 37 - 39, l’autore si congeda con i lettori vantando la sua opera.

L’autore di questo secondo libro dei Maccabei ci informa circa l’origine del testo. Egli scrive di avere compendiato un’opera sconosciuta composta da 5 volumi e scritta poco dopo il 160 a.C. da un certo Giasone di Cirene, cioé da uno scrittore giudaico della diaspora africana. Certamente Giasone doveva essere ben documentato su Gerusalemme, sull’amministrazione seleucide, sui funzionari del governo e sui loro titoli. Egli, convinto monoteista, menziona il nome di Dio ad ogni occasione, ricorrendo spesso alla preghiera e lanciando violente invettive contro i nemici della sua religione.

Lo scrittore del secondo libro dei Maccabei utilizzò la storia di Giasone scegliendo gli episodi più significativi collegandoli con piccole aggiunte; ritoccò la lingua greca di Giasone impiegando costruzioni più complesse. In ogni caso conservò del primitivo testo, la narrazione “patetica”, motivo per il quale è difficile distinguere ciò che appartiene a Giasone e quello che invece è dell’ultimo redattore.

Lo scrittore, pur di mettere in rilievo l’importanza religiosa degli eventi, trascura la precisione tipica di uno storico e l’esatta cronologia dei fatti. Rispetto al precedente testo di Giasone che faceva intervenire gli dei per aiutare i combattenti, in Maccabei II l’aiuto divino assume la forma di una “manifestazione celeste” attraverso l’intervento degli angeli.

In ogni caso tale libro è “storico” poiché mette in rilievo la parte avuta dai sommi sacerdoti nell’opera di ellenizzazione.

Questo libro fa progredire la rivelazione dell’Antico Testamento in alcuni punti importanti, poi ripresi dal Nuovo Testamento. Innanzitutto viene approfondito il concetto di Dio creatore del mondo e degli uomini. Dio sanziona la condotta degli uomini secondo le opere; empi e persecutori sono sempre puniti per i loro crimini, mentre i giusti sono protetti dagli angeli e i santi intercedono per loro. Se soffrono fino al martirio, sono sicuri di risuscitare dal regno dei morti e ottenere una ricompensa nell’altra vita.

Fino a quel momento la fede giudaica non era mai penetrata così profondamente nel mistero della retribuzione dell’aldilà. Il martirio è considerato un’espiazione che arresta la collera divina. Viene menzionata anche l’efficacia della preghiera dei vivi per i morti.

https://youtu.be/pOLfTLiYFqw

Don Doglio - Maccabei


LIBRI POETICI E SAPIENZIALI


SALMI


I Salmi sono una ricchissima raccolta di 150 preghiere che troviamo nell’antico Testamento. È il terzo libro più lungo della Bibbia dopo Geremia e Genesi. Fin dalle origini il cristianesimo ha fatto del salterio (la raccolta dei salmi) il proprio libro di preghiera condiviso con i fratelli maggiori ebrei. Vangelo e Salmi erano e sono il pane quotidiano della Chiesa.

I salmi sono parola di Dio che arriva al cuore e alle labbra dell’uomo. Come il bambino impara a parlare dai genitori (e si spera che impari anche a pregare con il loro aiuto) così Dio ci insegna, ci dona, il modo giusto per pregarlo. Dio comunica sè stesso mediante la Parola, mediante l’ispirazione che santifica la parola e questa parola ritorna a Dio con la nostra umanità, con il nostro vissuto.

Questo libro nella Bibbia ebraica prende il nome di Tehillim, cioè lodi, perché molte delle 150 preghiere sono inni di lode a Dio. La traduzione greca della Bibbia, che è detta “dei Settanta”, rende la parola Tehillim con “psalmos” dal verbo “psallein”, toccare le corde con il plettro.

I salmi infatti nel Tempio e nelle sinagoghe erano cantati con l’accompagnamento di ogni tipo di strumento musicale, ma in particolare con gli strumenti a corda: cetra, arpa, in greco “psalterion”. Nel libro dei salmi troviamo preghiere per ogni situazione, tant’è che la maggior parte dei commentatori hanno sempre suddiviso questo libro per argomento tematico, per tipologia di preghiera. Abbiamo così salmi di lode o inni, salmi di ringraziamento, di supplica, di fiducia, di pellegrinaggio, salmi sapienziali, storici, regali o messianici in cui si tratteggia la venuta del Messia, salmi della regalità di Jhwh che di solito iniziano con la frase “Dio regna, esulti la terra”.

La tradizione ebraica attribuisce al re Davide tutto il libro e così ha fatto anche la Chiesa in particolare dopo il Concilio di Trento che parla di “psalteriumDavidicum”. In realtà la maggior parte dei salmi presenta un sottotitolo o intestazione che ne indica sia l’autore sia il genere musicale (inno, lamento, per strumenti a corda, sull’aria della tal canzone) sia, a volte, l’occasione per cui il salmo fu scritto. Per esempio il Sal. 92 reca l’annotazione “canto per il giorno del sabato”; il Sal. 84 “Al maestro del coro, sull’aria i torchi” e il Sal. 51 riporta “al maestro del coro, inno di Davide, quando il profeta Natan andò da lui dopo che aveva peccato con Betsabea”. Quindi dai sottotitoli apprendiamo che 74 salmi sono attribuiti a Davide, 12 ad Asaf (un levita-sacerdote vissuto al tempo del re Ezchia nel 700 a.C), 11 ai discendenti di Core contemporanei di Davide, 1 a Mosè, 4 ad autori il cui nome non ha altri riscontri nell’Antico Testamento e infine 45 salmi sono anonimi, non hanno sottotitoli né attribuzioni.

La preghiera dei salmi è diventata fin dai primi secoli la preghiera dei cristiani innanzi tutto perché questa era la preghiera di Gesù. Come ogni buon ebreo ritmava la giornata pregando tre volte proprio con i salmi: mattino, mezzogiorno e sera. E che Gesù conoscesse bene queste preghiere ce lo rivela il testo dei Vangeli. Infatti sono i Salmi il libro più citato nei discorsi di Gesù. Quando entra in Gerusalemme acclamato dalla folla, ai sacerdoti che lo contestavano, Gesù risponde “non avete mai letto ‘Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari?”, citando il Sal. 8. Al Getsemani prega con i salmi 42 e 53 “la mia anima è triste fino alla morte”. Sulla croce prega il Sal. 22 “mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” e morente recita il Sal. 31,6 “Signore nelle tue mani affido il mio spirito”.

Nella pratica della preghiera sinagogale e nel corso della trasmissione testuale il Salterio fu diviso in cinque libri: Sal 1-41; 42-72; 73-89; 90-106; 107-50, tutti scanditi da una dossologia finale: Sal 41,14; 72,18; 89,53; 106,48. Nel quinto e ultimo libro c’è una raccolta di salmi, chiamati “alleluiatici” (Sal 146-150), che fungono da dossologia conclusiva del quinto libro dell’intero Salterio. Il motivo ultimo di questa divisione non è del tutto evidente, ma potrebbe trovarsi nell’organizzazione del Pentateuco: “Come Mosè diede cinque libri di leggi a Israele, così Davide diede cinque libri di salmi a Israele”(Midrash Tehillim, commentario rabbinico dei Salmi).

Tuttavia esso non va inteso come un archivio di singole preghiere che non hanno alcun rapporto tra loro, ma come un tutto organico, in cui non mancano elementi di strutturazione basati su tecniche di attrazione o di associazione che stabiliscono delle connessioni tra salmi (o serie di salmi) successivi, vicini, di contenuto simile e contrastante.

I Sal 1-2 sono introduttivi e i Sal 146-150 sono conclusivi ,e formano la cornice del Salterio.

Alcuni salmi si possono raggruppare per temi come “i salmi di pellegrinaggio” (Sal 120-134) o quelli sul “regno di Dio” (Sal 93-99), per autore come “i salmi di Core” o i “salmi di Asaf”, e altri a partire dalle soprascritte redazionali, come quelli “di” o “per Davide”. Altri indizi di composizione sono per l’uso del nome ‘Elohim’ per rivolgersi a Dio (i Sal 42-83 sono chiamati “Il Salterio elohistico”) o le lamentazioni individuali, concentrate nella prima parte del Salterio, nonché i salmi di lode presenti invece nella seconda parte.

Nella sua attuale distribuzione, quindi, il Salterio non si presenta come un’unica raccolta, ma come “una raccolta di raccolte” introdotta dai Sal 1-2, i quali offrono la chiave d’interpretazione dell’intero libro, ovvero la spiritualità della Torah e la speranza del Messia.

Il blocco dei Sal 3-41 forma una raccolta dedicata a Davide (a eccezione del Sal 10 e 33), costituita per lo più da suppliche individuali, che riceve il nome di “primo Salterio davidico”.

Segue poi la prima sezione del Salterio dei figli di Core (Sal 42-49), composta da poemi attorno al tempio di Gerusalemme, il Salterio di Asaf (Sal 50 e 73-83), sul tema di Dio come pastore del suo gregge Israele, il secondo Salterio davidico (Sal 51-72) e la seconda sezione del Salterio dei figli di Core (Sal 84, 85, 87,88), collegati ai cantori del tempio.

Nel blocco dei Salmi 90-106 predominano i Salmi senza soprascritta e i salimi del regno di Javhé.

Infine i Salmi 107-150 si distinguono dagli altri per il loro tono alleluiatico e la loro teologia di taglio escatologico. All’interno di questo blocco ci sono i cosiddetti tre Hallel: l’Hallel pasquale (Sal 113-118), il Grande Hallel (Sal 135-136) e il Piccolo Hallel (Sal 146-150), nonché i Salmi delle ascensioni verso Gerusalemme (Sal 120-134).

https://youtu.be/1SbUOqbo8pA

Don Doglio - Salmi

 


 PROVERBI


“Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d’Israele, per conoscer la sapienza e l’istruzione, per capire i detti intelligenti, per acquistare una saggiaeducazione … dare ai giovani conoscenza e riflessione … il timore del Signore è il principio della scienza …” Così inizia il terzo libro degli scritti che nelle nostre bibbie troviamo dopo i Salmi e Giobbe e che prende il nome di Libro dei Proverbi. Il nome ebraico di questo scritto, lungo ben 31 capitoli, è "mashalim" che abbraccia una vasta gamma di significati: parabola, aforisma, detto o cantico sapienziale, poesia simbolica, proverbio e infine paragone, che è il nome di questo libro nella bibbia greca. La versione latina lo chiama proverbia e quindi il testo italiano così lo traduce.

Per noi un proverbio è un detto sapienziale che viene dalla cultura popolare e che dovrebbe insegnarci a vivere (rosso di sera … tanto va la gatta al lardo … di notte leoni … etc.). Per il mondo biblico invece la riflessione riguarda il rapporto tra Dio e l’uomo e tra l’essere umano e la creazione: il tutto sotto lo sguardo vigile e previdente della sapienza di Dio. Quindi, se leggete questo libro, non aspettatevi una sfilza di detti o di frasi che vi indichino come vivere al meglio, ma una serie di pensieri di saggi di ogni epoca che cercano di penetrare il pensiero di Dio sul mondo.

Il libro viene attribuito a Salomone, mitico re sapiente, che vive intorno al decimo secolo a.C. ma troviamo al suo interno altre indicazioni: “… anche questi sono proverbi di Salomone, raccolti dagli uomini di Ezechia re di Giuda” (re vissuto nell’ottavo secolo), cosi come troviamo “detti di Ajur figlio di Iakè proveniente da Massa” e poi “parole di Lemuel re di Massa che apprese da sua madre”,autori sconosciuti . Non si sa quando vissero, solo che provengono da una città della penisola del Sinai.

I biblisti ci dicono che la redazione finale del libro dei Proverbi verosimilmente è avvenuta dopo l’esilio babilonese intorno al 500 a.C.

Dopo una breve introduzione il libro presenta nove sezioni che contengono riflessioni sulla vita, sulla morale e sul comportamento, spesso presentate come esortazioni di un

padre verso il figlio e da parallelismi tra la vita del saggio e dello stolto.

Ma il personaggio principale dei Proverbi è la Sapienza, in ebraico “Kokmah” la cui radice verbale ricorda l’abilità di colui che coglie nel segno, che va dritto verso la vittoria e che non sbaglia direzione. Si contrappone alla sapienza il sostantivo “hattàh” che in italiano traduciamo con “peccato”, ma che in realtà significa fallire il colpo, inettitudine, sbagliare strada o bersaglio.

La Sapienza come maestra di vita, unico bene da conquistare, tesoro nascosto da ricercare, via da percorrere. Sono queste alcune delle tematiche principali di questo libro, forse un po’ ripetitivo e noiosetto, ma fondamentale per la ricerca rabbinica. E’ infatti proprio grazie a questo libro che prendono vita le scuole rabbiniche in Israele che continueranno il lavoro di ricerca sulla Parola di Dio e sulla via per conoscerla.

“La sapienza grida in pubblico, nelle piazze fa sentire la sua voce … pronuncia la Parola alle porte della città … Ricercate le mie esortazioni, ecco farò zampillare il mio Spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole” (Prov. 1,20 – 23). Chi ha un po’ di dimestichezza con il Nuovo Testamento ricorderà che Gesù usa la stessa immagine per descrivere il suo insegnamento: “l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente che zampilla per la vita eterna” (Gv. 4,14).

Il culmine del libro dei Proverbi lo troviamo al capitolo otto, là dove la Sapienza è presentata quasi come un essere vivente, come la parola di Dio personificata: “Jahvè mi ha generato al principio della sua attività, prima di ogni altra opera all’origine. Fui costituita dall’eternità fin dall’inizio della terra”. Generata, anziché creata, tale appare la Sapienza, il verbo di Dio, se ben traduciamo il verbo “qanah” con cui si descrive il suo venire all’esistenza.

“Quando non esistevano gli abissi, io fui generata … quando Dio fissava i cieli io ero là … quando disponeva le fondamenta della terra io ero con Lui come artefice”. La bibbia CEI traduce l’ebraico ’mn con architetto, artefice (che con le vocali corrisponde a ’amon), ma la parola può essere vocalizzata diversamente per esempio ‘emun che significa fedeltà o ‘amun che si traduce come bimbo piccolo. Il piano di Dio, la sua architettura è sapienza, la fedeltà di Dio al suo amore è da sempre e si intreccia con la sua creazione. Ciò che Dio ha posto in essere è come un bimbo, un figlio amato, prediletto, di cui si compiace.

Il Nuovo Testamento riprenderà molte espressioni del libro dei Proverbi per parlarci di Gesù: il verbo di Dio generato non creato, il vero fedele della Parola e della volontà del Padre, il figlio amato seduto alla sua destra fin dalla fondazione del mondo.“La sapienza ha mandato le sue ancelle a proclamare … venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato … la vera sapienza è conoscere il Santo” (Prov. 9, 1-10). Bere e mangiare la Parola per conoscere Dio, per renderci simili a colui che è Parola e Dio.

https://www.youtube.com/watch?v=ZHGASirYWbY

Don Doglio – Proverbi



LAMENTAZIONI


Si pensa che la composizione di queste cinque “qināh” (lamento, ma anche composizione poetica triste o di lutto) sia databile tra il 586 e il 538 a.C. , ossia tra la distruzione di Gerusalemme e del Tempio ad opera dei babilonesi ed il ritorno in Giudea di un buon numero di figli e nipoti dei deportati a seguito all’editto di Ciro.

La tradizione antica le attribuì al profeta Geremia grazie ad un versetto del 2° libro delle Cronache. “Geremia compose un lamento sul re Giosia. Tutti lo ripetono ancora oggi, è diventata una tradizione in Israele, esso è inserito tra i lamenti (quȋnot)”. Ciò ha fatto sì che la versione greca della Bibbia (chiamata “dei Settanta”) e quella tradotta in latino da S. Girolamo (detta “Vulgata”) si aprissero con un’aggiunta al testo ebraico che diceva così: “Dopo che Israele era stato condotto in schiavitù e Gerusalemme resa deserta, avvenne che Geremia si sedette piangendo e compose questo lamento funebre...”

Ogni capitolo di questa raccolta è composto da 22 versetti, ogni versetto inizia con una lettera dell’alfabeto ebraico: il primo con l’alef, il secondo con la beth, fino all’ultimo con la tau… noi diremmo dalla A alla Z. La terza cantica, invece, quella che sta al centro, ha 66 versetti (3x22) anch’essi in ordine alfabetico. Ciò fa sì che ii 154 versetti delle Lamentazioni rappresentano sette volte le ventidue lettere dell’alfabeto. Ecco dunque il simbolismo che racchiudono: i sette giorni della creazione trovano il loro opposto nei sette giorni dell’anticreazione, nei giorni della distruzione in cui le ventidue energie di Dio escono da Lui per portare rovina… Se Israele esultava per le ventidue lettere con cui fu donata la Legge, ora può soltanto piangere e lamentarsi”.

La liturgia cattolica legge queste 5 lamentazioni durante la Settimana Santa nel ricordo della tomba chiusa di Gesù di fronte a quella che sembra la sua sconfitta. I nostri fratelli ebrei leggono e cantano questo libro nella ricorrenza del nono giorno del mese di Av (luglio-agosto) in cui ricordano le distruzioni di Gerusalemme (587 a.C. - 70 d.C. - 135 d.C.), tutte avvenute nello stesso giorno.

 

 

CANTICO DEI CANTICI


Il Cantico dei Cantici è probabilmente per l’Antico Testamento il punto massimo di spiritualità.

Il libro è tutto dedicato all’amore sia sponsale (nella sua nascita, nella crescita, nelle sue crisi, nel suo compimento) sia a quello di Dio verso le sue creature. E’ una sinfonia dell’amore carnale tra un uomo e una donna, una lui e una lei che simboleggiano sia la nostra esperienza di quando siamo innamorati di qualcuno, sia l’amore bruciante, geloso e furioso che il nostro Dio-Amore sente verso ognuno di noi.

Questo poema in ebraico si chiama “shir” (canto, salmo, cantica) “ha” (di, dei) “shirim” (plurale: canti) che è anche un superlativo assoluto. Quindi potremmo anche chiamarlo: il canto più bello tra i canti.

Il cantico per eccellenza si compone di otto capitoletti per un totale i 177 versetti e già nel primo versetto è citato l’autore “cantico dei cantici di Salomone”, il grande re sapiente che regna intorno al 970 a.C. In realtà l’analisi linguistica porta a pensare che quest’opera sia stata scritta intorno al 4° secolo a.C, in epoca post-esilica, quindi contemporanea agli altri testi sapienziali. Come fa notare il grande esegeta ebraico AndrèChouraqui “il cantico è una sinfonia in tre movimenti, in tre temi. Il primo tema è quello della genesi dell’amore”, l’innamoramento tra la donna e l’uomo, il loro cercarsi, baciarsi, abbracciarsi (capitoli 1 – 2). “In contrappunto nasce il secondo tema della sinfonia, quello dell’esilio: l’amata ricerca l’amato assente che è partito lasciandola nella solitudine, ma infine i due si ritrovano ed è il trionfo dell’amore” (capitoli 7 – 8). Il terzo tema “esplode nella gioia del ritrovamento: è finito l’esilio, la sofferenza è redenta. Gli amanti si rivedono nella loro più grande bellezza e in tutta la loro nudità”. E’ la celebrazione dell’amore, le nozze mistiche (capitoli 7 – 8): “mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio perché forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti la sua passione… le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo”.

Scrive il cardinal Ravasi: “al centro della scena sono due innamorati. Lei e Lui che intessono un dialogo, curiosamente diretto dalla donna, che occupa una posizione di primato, nonostante la società maschilista dell’antico Oriente”. È proprio lei, la giovane ragazza che apre il cantico con il suo desiderio d’amore: “baciami con i baci della tua bocca (anche qui c’è un superlativo; si potrebbe tradurre meglio così: “baciami a piena bocca, con tutta la tua bocca”) Sì, migliore del vino è il tuo amore… trascinami con te, corriamo” (Ct 1,2-4).

https://www.youtube.com/watch?v=VtM92y81Nnk

Jean Emmanuel de Ena: IL CANTICO DEI CANTICI: UN INVITO, TRE USCITE E UNA FUGA

 

 GIOBBE

Considerato uno dei capolavori della letteratura di tutti i tempi, il libro di Giobbe ha alla base la storia di una famiglia felice sulla quale si abbatte la bufera di una serie impressionante di sciagure che lasciano il protagonista – uno sceicco orientale non ebreo – inebetito su un cumulo di immondizie. Di quest’ opera imponente e ardua, vogliamo ora solo cogliere un aspetto minore, in riferimento al tema del legame tra famiglia e misericordia, stavolta in chiave negativa.

Sì, perché la prova talvolta non unisce, ma divide; la compassione lascia il passo alla recriminazione; la misericordia si deforma in lamentela e persino in disprezzo. Basti pensare alla moglie di Giobbe che ha davanti il marito ridotto a un rudere, colpito da una «piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo» (2,8). È lì, simile a un rottame umano, mentre si gratta con un coccio, immerso nella cenere e nella sporcizia. La donna non riesce più a trattenersi e con ironia gli grida: «Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e poi crepa!» (2,9). Una brutalità che purtroppo spesso si ripete in certe famiglie ove tutto sembra andar male e la tentazione di incolpare l’ altro diventa forte. È la rottura della relazione e degli stessi affetti. Giobbe lo esprime con un’ immagine incisiva: «Il mio alito è ripugnante per mia moglie e faccio schifo persino ai figli del mio grembo» (19,17).

Il bacio, segno dell’ intimità, si trasforma in nausea e il ribrezzo prende il posto della convivenza e della vicinanza affettuosa. Sì, perché in passato la situazione di Giobbe era ben diversa e nel cap. 29 egli lo descrive come segnato proprio dalla misericordia: «Soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’ orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Mi rivestivo di giustizia come di un abito, la mia equità era come il mio manto e il turbante. Ero gli occhi per il cieco, i piedi per lo zoppo e padre per i poveri» (29,12-16).

Torna, così, la domanda che serpeggia in molte pagine di quest’ opera: la tesi che gli amici teologi di Giobbe sostengono – il bene è sempre premiato e il male punito – non è forse un colossale imbroglio e Dio non è piuttosto un imperatore impassibile, indifferente alla qualità morale delle persone?

L’ interrogazione di Giobbe è soprattutto teologica, è una protesta rivolta a Dio perché risponda, si giustifichi e riscatti questa palese ingiustizia. Alla fine il Signore interviene, ma l’ esito non è quello che il grande sofferente s’ attende, tant’ è vero che alla fine è ancora sulla cenere e sulla polvere, eppure le sue parole non sono più un grido di ribellione ma una professione di fede (42,5-6). Il quadretto finale posticcio (42,10- 17) con una nuova famiglia prospera e serena è solo un modo per quietare le riserve degli ascoltatori superficiali che vogliono a tutti i costi un lieto fine. Ma per spiegare il vero significato di questo libro è necessario un lungo, paziente e accurato studio di un’ opera grandiosa e misteriosa centrata sul mistero di Dio e del male.

(Mons Gianfranco Ravasi)

https://www.youtube.com/watch?v=5BhMQ6wRzis&t=202s

Don Doglio – Giobbe

 

 QOELET

Possiamo definire il libro del Qoelet come le riflessioni di un anziano maestro della comunità di una sinagoga.

Un anziano rabbi che ripercorre le sue esperienze di vita, il suo studio della sapienza e della verità concludendo che in fondo “vanità delle vanità, tutto è vanità”.

In ebraico la parola che le nostre bibbie traducono come vanità è “hebel” che compare ben 38 volte nel libro, applicata a tutta la realtà.

La parola “hebel” (che ricorda il nome Abele, fratello di Caino, ucciso ancora giovane, per lui la vita fu un soffio) apre e chiude il libro. Dall’ebraico può essere tradotta come “fumo, nebbia, soffio, vuoto, nullità, ombra o inconsistenza esistenziale. Il teologo Bonora suggerisce di tradurre “fragilità delle cose”, altri “leggerezza dell’esistenza”.

La domanda di partenza del libro è questa. “Quale vantaggio viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?” (1,3). Cioè: esiste qualcosa di buono e bello, un vero bene o valore che giustifichi la fatica che ogni uomo deve affrontare per vivere? La risposta è negativa: “è tutto un soffio”, tutto ciò che l’uomo costruisce e vive, il suo lavoro, il suo pensiero, le sue ricerche, il suo agitarsi, la stessa voglia di vivere, tutto è “hebel”, inconsistente, di breve durata. Qoelet afferma sempre con forza che ogni attività dell’essere umano nel suo spazio terreno è deludente, realtà ingannevole e a volte assurda: “così ho osservato tutte le opere che si compiono sotto il sole e ho concluso che tutto è hebel e occupazione senza senso”.

Il secondo capitolo del libro è una critica graffiante contro due caratteristiche che Israele attribuiva al re Salomone: la ricchezza e la sapienza. “Ho accumulato oro, argento e tesori da re… mi sono procurato principesse in gran numero. Sono diventato più grande e potente dei miei predecessori! Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, ma mi sono convinto che tutto è vanità e agire senza senso”. Anche la grandezza di Salomone è durata lo spazio di un soffio, il regno che ha costruito è stato gettato alle ortiche dai discendenti, il suo Tempio e il suo palazzo distrutti dai babilonesi.

L’invito di Qoelet è quello di imparare a vivere nell’economia di Dio che dona piccole gioie ad ogni creatura. “Non c’è nulla di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godere il frutto del proprio lavoro. Ho capito che tutto questo viene dalla mano di Dio! Chi infatti può magiare e godere senza di lui?” (2,24-25). Questa considerazione che Qoelet qui inizia sarà poi completata da Gesù: “Non affannatevi per quello che mangerete o berrete e neanche per il vostro corpo o di quello che indosserete: la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo… il Padre li nutre… osservate i gigli del campo… neanche Salomone vestiva come loro! Cercate il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta.” (Mt 6,23-33)

Anche la sapienza entra nel mirino di Qoelet nella seconda parte del capitolo 2: “anche questo è vanità! Perché né del sapiente né dello stolto resterà un ricordo nel futuro”. Qui contesta la mentalità del suo tempo.“La memoria del giusto è una benedizione, il nome degli empi svanisce”, si legge ad esempio nel libro dei Proverbi. “Il giusto sarà sempre ricordato”, troviamo scritto in un salmo. Vale a dire che uno dei doni della sapienza sarebbe l’immortalità, ma Qoelet lo nega: “la stessa sorte toccherà sia al sapiente che allo stolto”, “tutti sono diretti verso il medesimo luogo; tutto è venuto dalla polvere e nella polvere ritorna”.

A questo punto però Qoelet ci regala una perla di saggezza che è poi il messaggio centrale del libro: “ho compreso che non c’è nulla di meglio per l’uomo che godere delle proprie opere, perché questo è il suo destino. Nessuno infatti lo porterà a vedere ciò che accadrà dopo di lui” (3,22). Cioè vivi con gioia il tuo presente abbandonandoti con fiducia a Dio, senza preoccuparti o affannarti; le piccole gioie quotidiane sono l’unica cosa che impreziosisce la nostra esistenza: “del doman non v’è certezza”.

https://www.youtube.com/watch?v=N1iQoZVORO8&t=6s

Don Federico Tartaglia - Qoelet

 

 SAPIENZA

Il libro della Sapienza è stato scritto in lingua greca  verso il sec. 50 avanti Cristo. Rispetto agli altri libri sapienziali esso compie un passo avanti verso il Nuovo Testamento, in modo particolare quando prospetta la vita eterna oltre la morte.

Il suo autore, un membro della comunità giudaica di Alessandria d’Egitto, l’ha redatto lontano dalla Giudea, tentando di rileggere la fede giudaica con le categorie del mondo greco (che conosceva bene). Egli prende come modello di uomo saggio il re Salomone che è stato istruito da Dio e che ha coltivato anche le scienze della botanica, della zoologia, l’amministrazione economica e politica del suo regno. Salomone fu tanto abile nel fare alleanze che sposò la figlia del faraone egiziano.

Lo scrittore attraverso il libro  intende spiegare che Dio creò l’uomo mediante la Sapienza, suscitando una visione positiva della storia e delle realtà umane e cosmiche.

Il libro è formato da 19 capitoli che si possono ricondurre a tre parti principali:

Prima parte (cap. 1-5)

In questa parte viene presentata la possibilità di due diversi atteggiamenti che derivano dal senso che si dà all’esistenza e cioé: a) o siamo nati per caso, per cui dopo questa vita non esiste niente; b) oppure (e lo scrittore accetta questa seconda teoria) veniamo da Dio e a Lui ritorniamo conducendo una vita santa e restando saldi nel suo amore. Al di fuori di tale sapienza vi è la morte. Poiché il Signore non vuole la morte ma la vita, il libro della Sapienza indica proprio qual è il destino dell’uomo.

Seconda parte (cap. 6,1-11,3)

Questa parte ci invita a ricercare la Sapienza di Dio, “amica degli uomini”, così da farne “la compagna della nostra vita”, lasciandoci attirare dalla sua bellezza. Il re Salomone tesse un elogio alla Sapienza con parole che di fatto non sono sue. L’autore del libro, infatti, per sviluppare il tema, usa la storia del re così come viene riferita nel 1 libro dei Re al cap 3 e dal secondo libro delle Cronache. In base ai due racconti Salomone trascorse la notte in preghiera nel santuario in cima al monte Gabon, per chiedere al Signore la saggezza necessaria per governare il suo popolo.

In questa seconda parte la Sapienza si rivela come presenza di Dio nel mondo e nell’uomo, per condurre quest’ultimo sulle vie di Dio.

Terza parte (cap. 11,4 - 19,22)

In questa parte la Sapienza sembra quasi scomparire dalla storia del popolo israelita. L’autore allora tenta di dimostrare la grandezza di Dio e la missione del popolo in un momento in cui nuove culture lo stanno seducendo.

 Il termine sapienza, in ebraico hokma, designa nella Bibbia un dono molto prezioso e ricercato, perché permette all’uomo di vivere in pienezza la sua condizione umana, in sintonia con il progetto di Dio.

Secondo lo scrittore l’uomo saggio è l’uomo giusto

chiamato a vivere nell’eternità di Dio. E poiché la Sapienza è una realtà misteriosa nascosta nel cuore del mondo, essa si rivela a chi la ricerca con tutto il cuore ed è concessa proprio come dono di Dio.

Dio partecipa all’uomo la Sapienza con cui ha creato il mondo, ma per riceverla in dono è necessario che l’uomo stia lontano dal male allontanandosi dalla superficialità.

La Sapienza non è dunque una filosofia  che  insegna l’arte del vivere, piuttosto indica una scelta di fede che permette di entrare e rimanere in relazione con Dio.

Il popolo d’Israele è il depositario di questa Sapienza e ha il compito di farla conoscere alle genti in mezzo alle quali si trova disperso.

Pian piano la Sapienza assume i tratti e le funzioni della rivelazione di Dio agli uomini che agisce nel cuore umano e che prepara, lentamente all’accoglienza di Gesù Cristo, Sapienza del Padre, come viene presentato specialmente nel Vangelo di Giovanni e nelle lettere di san Paolo. Il mistero di Gesù non si esaurisce identificandolo con la Sapienza dell’Antico Testamento, ma ne riceve luce riguardo alla presenza di Dio tra gli uomini.

Il Nuovo Testamento annuncerà la Sapienza come mediatrice, presente nel cuore umano.

La Sapienza mediatrice per eccellenza tra Dio e l’uomo è Gesù Cristo che pone la sua dimora in mezzo a noi e che, con la Sapienza della Croce, sconvolge qualsiasi altra Sapienza.

https://youtu.be/L9jh1BoEaUQ

Don Doglio - Sapienza

 

 SIRACIDE

Il Libro del Siracide (greco Σοφία Σειράχ, SophíaSeirách, "sapienza di Sirach"; latino Siracides), tradizionalmente noto anche come Ecclesiastico è un testo sapienziale contenuto nella Bibbia cristiana (Settanta e Vulgata) ma non accolto nella Bibbia ebraica (Tanakh). Come gli altri libri deuterocanonici è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.

È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 180 a.C. da "Gesù (o Giosuè) figlio di Sirach", poi tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C.

È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni e ancor oggi la liturgia si fa portavoce di questa antica tradizione di sapienza.

Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovò a soggiornare in Egitto, verosimilmente ad Alessandria, nel 38° anno del regno di Evergete (Tolomeo VIII Evergete II, detto Fiscone, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 170 a.C.), corrispondente al 132 a.C.. Suo nonno, Gesù ben Sirach, verosimilmente fu attivo verso il 190-180. Un argomento interno conferma questa data: Ben Sirach cita il sommo sacerdote Simone (verosimilmente Simone II, morto nel 200 c.a) facendone un elogio ricco di ricordi personali (50,1-21).

Il libro non ha uno schema preciso, ma si apre su un ampio orizzonte che abbraccia i molteplici aspetti positivi e negativi dell’esistenza umana: l’amicizia, la morte, l’avarizia, il creato e i suoi elementi, il prestito, il governo, le donne, l’uso della lingua, il giuramento, l’adulterio, la libertà, i figli, la salute, il vino, i banchetti, gli schiavi, i viaggi, il lavoro intellettuale e quello manuale. Nella sua descrizione, il Siracide non si pone gli interrogativi angosciosi di Giobbe, né assume l’atteggiamento provocatorio di Qoèlet, ma presenta una visione serena del mondo e della vita, sorretta dalla presenza di Dio e dalla bontà della sua provvidenza.

Nel proporre la sua riflessione, il Siracide rimane profondamente radicato nella tradizione religiosa dei padri, vedendo nella legge del Signore (la Torah) il fondamento e la fonte prima della vera sapienza, data a Israele (24,23-34). In ciò appare anche l’unicità d’Israele nei confronti della cultura ellenistica, con la quale doveva confrontarsi l’ebraismo del III-II sec. a.C. Nei cc. 44-50 gli antenati d’Israele fedeli a Dio sono presentati come testimoni esemplari di un’umanità guidata dalla sapienza, verso la sua piena realizzazione. Quelli, invece, che non furono fedeli, che cioè non seguirono la sapienza, vengono indicati come meritevoli del castigo.

https://www.youtube.com/watch?v=3EPNQmglXG4

Siracide – Don Federico Tartaglia

 

 

 PROFETI

 I Profeti Maggiori e Minori dell'Antico Testamento profetizzarono in Israele e Giuda prima, dopo e durante l'esilio del popolo ebraico in Assiria e a Babilonia

I Profeti Maggiori in ordine di apparizione e i cui libri troviamo nell'Antico Testamento della Bibbia Ebraica e Cristiana (Bibbie Protestanti e Cattoliche) sono: Isaia, Geremia, Baruc, Ezechiele e Daniele.

Il termine "Maggiori" si riferisce alla lunghezza di ogni libro, non alla sua importanza.

I Profeti Minori o Dodici Profeti dell'Antico Testamento Cristiano ed Ebraico sono: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia.

Il termine "Minori" anche in questo caso è relativo alla lunghezza di ciascun libro, poichè anche il più lungo é corto rispetto ai libri dei Profeti Maggiori: infatti ogni libro dei Profeti Minori può essere composto da un singolo capitolo o può arrivare fino a contenerne 14.


PROFETI MAGGIORI

ISAIA.

Primo dei profeti maggiori. Il libro, che comprende 66 capitoli, è diviso dai critici moderni in tre parti chiamate rispettivamente Protoisaia (Is 1-39), Deuteroisaia (Is 40-55), Tritoisaia (Is 56-66). Solo la prima sezione risale per la maggior parte al profeta Isaia, nato nel 765 ca. a. C o alla sua scuola, ed è il risultato redazionale della fusione di varie raccolte con aggiunte più tarde.

La prima parte (Is 1-12) contiene oracoli, visioni e poemi tra cui il «canto della vigna» (5,17) e il cosiddetto «libro dell'Emmanuele» (Is 6-12), che si apre con la vocazione di Isaia e la visione del Signore tre volte santo, e comprende i tre testi che la liturgia cristiana dell'Avvento applica alla nascita di Gesù (7,1017; 9,16; 11,19).

Seguono gli oracoli contro le nazioni (Is 13-23), la cosiddetta «Apocalisse» (Is 24-27), gli oracoli su Israele e Giuda al tempo del re Ezechia (715-686 ca., Is 28-33), la «piccola Apocalisse» contro Edom e sul trionfo di Gerusalemme (Is 34-35) e infine un'appendice storica parzialmente in prosa sulle vicende di Isaia e di Ezechia, con la sua miracolosa guarigione (Is 36-39). Nel “Libro della consolazione” (cc 40-55) sono raccolte composizioni diverse per genere letterario: inni, salmi, dossologie, acclamazioni, professioni di fede, oracoli di salvezza, introdotti con l’invito: “Non temere…”, discorsi sullo stile del dibattito processuale, brani di riflessione sapienziale. La redazione progressiva, la revisione e la rilettura durante e dopo l’esilio sono state fatte da un “profeta” anonimo all'interno di un gruppo, che si richiama alla tradizione del profeta Isaia dell’ottavo secolo a.C.

La caduta di Gerusalemme nel 587 a.C. rappresenta la crisi delle istituzioni tradizionali. La terra, dono di Dio, compimento del primo esodo e dell'alleanza, è occupata e controllata dalle potenze straniere. Il tempio, segno della presenza e della fedeltà di Dio, è distrutto e profanato. Il re Sedecìa, simbolo della fedeltà di Dio e delle sue promesse alla casa di Davide, è trascinato in catene a Babilonia, accecato dopo aver visto l’uccisione dei suoi figli (2Re 25,5-7). La deportazione di circa 10.000 ebrei, amministratori, tecnici ed intellettuali, priva la terra di Giuda della possibilità di una rinascita dopo le devastazioni della guerra (cf. 2Re 25,12; Ger 52,28).

L’esperienza tragica dell’esilio diventa l’occasione per un risveglio spirituale perché fa riscoprire la fedeltà di Dio, il ruolo della sua “parola” proclamata dai profeti - Geremia, Isaia, Ezechiele - e consente di rileggere la storia del passato alla luce della fede (tradizione deuteronomistica e sacerdotale). Nella nuova prospettiva di speranza si pone l'accento sulla gratuità della salvezza e sulla fedeltà di Dio, che è in grado di far ripartire la storia dopo la rovina provocata dall’infedeltà all'alleanza da parte del popolo e dei capi di Israele e Giuda.

Nel contesto dell’esilio e del postesilio si riscopre il significato del “sabato” e della “circoncisione” come segni di identità e di appartenenza etnico-religiosa al popolo di Dio. La distruzione del tempio di Gerusalemme, con la relativa riduzione del culto templare, dà nuovo impulso alla liturgia sinagogale, incentrata sulla lettura della Bibbia e sulla preghiera dell’assemblea.

I protagonisti del dramma spirituale sono Dio, il Signore che crea e guida la storia, il suo “servo” Ciro, il servo giusto, il resto fedele, Israele in mezzo agli altri popoli. Nell’esperienza dell’esilio si riscopre il volto di Dio creatore e salvatore, che non teme concorrenti nel confronto gli idoli dei popoli. Egli è in grado di liberare i deportati di Babilonia con un nuovo esodo per riportare i figli di Israele nella terra promessa ai padri.

Il contesto storico del Tritoisaia – Is 56-66 – è quello del ritorno dall’esilio e della ricostruzione postesilica (538-380 a.C.). L'editto di Ciro favorisce il ritorno degli esuli (Esd 1,2-4) e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (Esd 6,3-5). Esdra e Neemia organizzano il ritorno e danno avvio alla ricostruzione del tempio. Sotto Zorobabele, discendente davidico, riprende il culto. Il nuovo tempio viene inaugurato nel 515 a.C. Permane il clima di delusione e sconforto per le difficoltà del ritorno e le resistenze dei samaritani e le tensioni con gli ebrei che non hanno vissuto l'esilio. Gli ultimi capitoli di Isaia sono un’antologia di brani poetici ispirati alla tradizione del profeta. Il redattore finale ha dato all'insieme una struttura centrata attorno al capitolo 61, dove si annuncia l'anno della misericordia del Signore (cf. Lc 4,18-19: Gesù a Nazaret).

https://www.youtube.com/watch?v=H6js8bJtKxw&t=8  Don Doglio Isaia


GEREMIA

Geremia è stato definito "profeta sofferente". La sua vicenda illumina la vicenda di Gesù. Geremia andrà in esilio in Egitto, inascoltato dai suoi stessi concittadini. Gesù muore sulla croce, ma realizzando nella sua risurrezione la parola che Dio rivolse a Geremia: "Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti" (Ger 1,18).

Del profeta Geremia si possiedono notevoli note biografiche. I tre versetti che aprono il libro: presentano il luogo di nascita: Anatot, una cittadina a 6 Km da Gerusalemme; il tempo in cui visse e profetò (dal 627 al 587) dal tempo del re Giosia fino alla caduta di Gerusalemme; l'origine sacerdotale della sua famiglia. Diversi racconti sparsi nel libro, alcuni in terza persona, altri in prima persona dette "confessioni" sono una testimonianza autobiografica toccante dell'esperienza di Geremia. Egli nella sua persona realizza le parole del Deuteronomio 18,15‐22. Dio, infatti, sulla sua bocca ha posto le sue parole ed egli le dovrà dire dinanzi ai suoi fratelli, anche a costo della vita.

Geremia si rivolge con coraggio ai responsabili del popolo: re, profeti, sacerdoti. Denuncia le ingiustizie, la profezia comoda e consolatoria che non invita a conversione. Attacca, senza timore, la ritualità e la fiducia idolatrica nel Tempio (7,1-15 e cap. 26), fino a predirne la distruzione (cf 26,6). Vorrebbe non profetare, ma non può mettere a tacere la missione di profeta (cf 20,10) e di "profeta per le nazioni" (Ger 1,5; 9,25) della quale Dio lo ha investito.

A differenza degli altri profeti non si limita a denunciare il peccato, ma vuole scoprirne la causa. Per il profeta la causa risiede nella profondità del "cuore perverso", che solo Dio può cambiare. La conversione vera richiede la morte del cuore pervertito e la rinascita del cuore fedele all'alleanza.

Ecco la novità della profezia di Geremia che annuncia il dono di una Nuova Alleanza che Dio scriverà direttamente nel cuore, reso anch'esso nuovo da Dio (cf Ger 31,31-33). L'apostolo Paolo (2Cor 3,1-3) e la Lettera agli Ebrei (Eb 10,11) spiegheranno come Dio realizzerà la nuova alleanza.

La parola che Geremia annuncia gli attira persecuzione, prigione, tortura (Ger 20,2 ss) fino al pericolo di morte:

"Una sentenza di morte merita quest'uomo, perché ha profetizzato contro questa città"(Ger 26,11). I suoi concittadini lo definiscono "profeta di sventura", e i suoi nemici "terrore all'intorno". La parola di Geremia non è per la morte ma per la vita. Quando Gerusalemme è distrutta e il popolo in esilio, il profeta invia agli esiliati la

meravigliosa lettera della speranza annunciando che Dio ha progetti di pace e non di sventura, e vuole concedere un futuro pieno di speranza (29,11).

https://www.youtube.com/watch?v=AyMRcfDhqOM&t=3s

Don Doglio Geremia


EZECHIELE

Terzo dei profeti maggiori. Il suo libro, che comprende 48 capitoli, può essere diviso in cinque sezioni organicamente strutturate: un'introduzione (Ez 1-3); una predicazione con oracoli di giudizio su Gerusalemme prima dell'assedio babilonese (Ez 4-24); una serie di oracoli contro le nazioni pagane (Ez 25-32); una seconda predicazione contemporanea e successiva all'assedio e alla caduta di Gerusalemme (Ez 33-39) in cui il profeta consola il popolo, e infine un programma legislatìvo per la futura comunità di coloro che torneranno nella terra d'Israele (Ez 40-48).

La data intorno a cui si organizza l'intero libro è il 587/6 a.C, anno della distruzione di Gerusalemme a opera di Nabucodonosor, e il ministero di Ezechiele può collocarsi tra il 593, anno della grande teofania (o visione del carro) con cui si apre il libro, e il 571. Il luogo è il villaggio babilonese di Tel abib dove il profeta era stato deportato nel 587. Caratteristiche di questo libro sono le visioni allegoriche, le azioni simboliche e il rilievo dato al Tempio (Ezechiele è un sacerdote), nei due momenti dell'abbandono del santuario attuale da parte della gloria del Signore (Ez 10) e della minuziosa descrizione del Tempio futuro in cui Dio tornerà (Ez 40-43). Sono poi da ricordare la proclamazione della responsabilità personale (Ez 3,16-21 e 18) e la visione delle ossa aride (Ez 3-7).

https://www.youtube.com/results?search_query=don+doglio+ezechiele Don Doglio-Ezechiele e Daniele


BARUC

Libro deuterocanonico, conservato nella traduzione greca, e attribuito al segretario di Geremia. È composto di 5 capitoli, più un sesto intitolato separatamente «lettera di Geremia". Contiene una confessione di peccati, un elogio della sapienza, un poema in cui Gerusalemme ammonisce e conforta i suoi figli, e infine una polemica antiidolatrica.

Non è anteriore al primo secolo a.C.


DANIELE

Quarto dei profeti maggiori per il canone cristiano, nono degli «Scritti» per il canone ebraico. Il testo canonico, che comprende 12 capitoli, è scritto parte in ebraico (Dn 1 e 8-12), parte in aramaíco (Dn 2-7 a eccezione di 3,24-90, deuterocanonico greco); i capitoli finali (Dn 13-14) sono anch'essi deuterocanonici.

Nella prima parte (Dn 1-6), il libro narra varie vicende di Daniele e dei suoi tre compagni: il sogno di Nabucodonosor spiegato da Daniele (Dn 2), i tre fanciulli nella fornace (Dn 3, con l'inserto deuterocanonico contenente i cantici di Azaria e dei tre fanciulli), la follia di Nabucodonosor (Dn 4), il banchetto di Baldassar (Dn 5), Daniele nella fossa dei leoni (Dn 6).

La seconda parte del libro (Dn 7-12) espone quattro visioni avute in sogno da Daniele con la loro interpretazione, e costituisce la sezione apocalittica del libro. Le più famose sono, nella prima, l'apparizione del «figlio dell'uomo» (Dn 7,13-14), nella terza, la profezia delle 70 settimane di anni (Dn 9). La seconda aggiunta deuterocanonica è costituita dal capitolo 13 (Susanna e i vecchioni) e dal 14 (Daniele e l'idolo Bel, Daniele e il dragone, Daniele nella fossa dei leoni).

Il libro, di autore sconosciuto, è databile intorno al 165 a.C


PROFETI MINORI


OSEA

È composto da 14 capitoli e descrive vari oracoli del profeta Osea. La maggior parte di tali profezie parlano dell'amore di Dio - sposo per Israele - sposa, che però è infedele perché idolatra, ed annunciano il castigo che si realizzerà nell'anno 722 a.C. con la conquista assira del regno di Israele.

Tuttavia c'è sempre l'annuncio della redenzione finale di Israele ad opera della misericordia di Dio (Os 2,11.21; 14,5).

https://www.youtube.com/watch?v=wZ56EyhRgIg

Don Doglio Osea


GIOELE

Nei primi due capitoli una invasione di cavallette che devasta la Giudea provoca una liturgia di lutto e di supplica alla quale Jahvè risponde promettendo la fine del flagello ed il ritorno dell'abbondanza.

Negli altri due capitoli viene descritto in uno stile apocalittico il giudizio delle nazioni e la vittoria definitiva di Jahvè e di Israele.

AMOS

Amos era pastore a Tekoa (Am 1,1) (un villaggio di Giuda a 9 chilometri a sud-est di Betlemme); estraneo alle confraternite dei profeti, è stato inviato da Jahve a profetizzare a Israele (Am 7,14). Dopo un breve ministero, che ebbe come quadro principale il santuario scismatico di Betel (Am 7,10) e che esercitò, probabilmente, anche a Samaria, fu espulso da Israele e ritornò alle sue prime occupazioni. Predica sotto il regno di Geroboamo II (783-743), epoca in cui il regno del nord si estende e si arricchisce e in cui lo splendore del culto maschera l'assenza di una religione vera. Amos condanna, in nome di Dio, la vita corrotta delle città, le ingiustizie sociali e la falsa sicurezza che si pone in riti in cui l'anima non si impegna (Am 5,21-22). Jahve castigherà duramente Israele, la cui elezione obbliga ad una più grande giustizia morale (Am 3,2). Il giorno di Jahve (l'espressione compare qui per la prima volta) sarà tenebre e non luce (Am 5,18); la vendetta sarà esercitata da un popolo che Dio stesso chiama (Am 6,14), l'Assiria; essa non è nominata, ma occupa l'orizzonte del profeta. Tuttavia Amos apre una piccola speranza, la prospettiva di una salvezza per la casa di Giacobbe (Am 9,8), per il resto di Giuseppe (Am 5,15 primo uso profetico di questo termine).


ABDIA

Il libro di Abdia rievoca la dolorosa vicenda della caduta di Gerusalemme, conquistata dall'esercito di Nabuccodonosor (586-587 a.C.), utilizzando il genere dell'oracolo, cioè di un severo e forte pronunciamento del profeta, fatto nel nome del Signore.

Il popolo di Edom nel libro di Abdia viene chiamato con diversi nomi: "Esaù" (Abd 6), "monte di Esaù" (Abd 1,8; 9; 10) e "casa di Esaù" ( Abd 18).

Secondo i racconti patriarcali (vedi Genesi 25,24-30), Esaù è chiamato anche Edom. Edom/Esaù era il fratello di Giacobbe e si stabilì nella regione che da lui prese il nome – Idumea o Edom – e che è situata a sud della Giudea.
Questa regione montagnosa è qui chiamata col nome di "monti di Esaù". La sua capitale è Petra, una città costruita negli anfratti delle rocce di questa regione montagnosa. Petra era, perciò, simbolo di inaccessibilità e di sicurezza, tanto che il testo di Abdia la descrive personificandola, mentre si compiace della sua posizione tra le rocce, che la rendono inespugnabile: Tu che abiti nei crepacci rocciosi e delle alture fai la tua dimora, dicendo in cuor tuo: Chi potrà gettarmi a terra? (Abd 3).
Ebbene, Dio demolirà questa città fortificata e l'abbatterà (Abd 15), perché lui solo è la "roccia" di Israele.
Mentre a consolare i deportati in Mesopotamia, costretti al lavoro coatto nel grande canale tra Babel e Nippur, c'era il grande profeta Ezechiele, tra i sopravvissuti ci fu il giovane Abdia, che proferì una dura minaccia contro gli edomiti insieme all'annuncio consolatorio della restaurazione di Gerusalemme, destinata ad accogliere il Messia.


GIONA

La Parola del Signore è rivolta a Giona, figlio di Amittai, e gli viene comandato di andare a predicare a Ninive, la Grande Città. Giona invece fugge a Tarsis via nave. Ma la nave è investita da un temporale e rischia di colare a picco dalla violenza delle onde. Giona allora ritrova improvvisamente il proprio coraggio e svela ai compagni di viaggio che la colpa dell'ira divina è sua, poiché ha rifiutato di obbedire a JHWH; perché la nave sia salva, egli deve essere gettato in mare. E così Giona è gettato in mare, ma un "grande pesce" lo inghiotte. Dal ventre del pesce, dove rimane tre giorni e tre notti, Giona rivolge a Dio un'intensa preghiera, che ricorda uno dei Salmi. Allora, dietro comando divino, il pesce vomita Giona sulla spiaggia. Allora Giona si decide a compiere la sua missione e va a predicare ai niniviti. Questi, contro ogni aspettativa, gli credono, proclamano un digiuno, si vestono di sacco e Dio decide di risparmiare la città. Ma qui riemerge l'istinto ribelle di Giona: lui non è contento del perdono divino, voleva la punizione della città di Ninive. Allora si siede davanti alla città e chiede a Dio di farlo morire. Il Signore mentre lui dorme fa spuntare un ricino sopra la sua testa per fargli ombra, ed egli se ne rallegra. Ma all'alba del giorno dopo un verme rode il ricino che muore, il sole e il vento caldo flagellano Giona, che invoca di nuovo la morte. Allora l'autore riporta le parole di Dio, divenute celeberrime:

Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita; ed io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?” (4,10-11)

https://www.youtube.com/watch?v=2MEPlieU3QM&t=1847s Don Doglio – Giona



MICHEA

È composto da 7 capitoli e contiene vari oracoli del profeta Michea contenenti esortazioni contro l'ingiustizia sociale e l'idolatria, annunci di castigo ma con una speranza messianica. Vedi (Mi 5,1-2) circa la nascita del Messia a Betlemme).

Il libro si divide in quattro grandi parti che alternano la minaccia e la promessa:

-processo di Israele (Mi 1,2-3,12)

-promesse a Sion (Mi 4,1-5,14)

-nuovo processo di Israele (Mi 6,1-7,7)

-speranze (Mi 7,8-20)

«E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti. » (Mi 5,2)

Come si legge nella presente citazione il libro di Michea è il solo che precisa che il Messia futuro nascerà a Betlemme; è interessante inoltre notare che lui specificò l'Efrata in Giuda (al tempo di Michea esistevano infatti due Betlem).



IV.2.7 NAUM

Il libro di Naum è un insieme di composizioni poetiche:

Na 1,2-8 -- Un inno acrostico (tutti i versi cominciano con le lettere dell'alfabeto ebraico; qui l'acrostico non è però perfetto). L'inno presenta la teofania del Dio-guerriero, Dio nazionale, usando degli attributi conosciuti dall'antica tradizione. Il Dio-guerriero esce in guerra per il suo popolo.

Na 1,9-15 -- Tre brevi detti, probabilmente frammenti di detti profetici cultuali.

Na 2,1-13 -- Il canto che annuncia la caduta di Ninive.

Na 3,1-19 -- La descrizione della caduta di Ninive.


ABACUC

Il primo capitolo è una discussione tra il Signore ed il profeta che è turbato dal vedere i cattivi apparentemente prosperare. Nel secondo capitolo il Signore gli raccomanda di essere paziente; infatti i giusti devono imparare a vivere conformemente alla fede.

«Il Signore rispose e mi disse: "Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mente; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede » (Ab 2,2-4)

Questo brano e soprattutto la frase finale: "il giusto vivrà per la sua fede" è ritenuto la parte di maggior importanza. Verrà ripreso da San Paolo nella sua dottrina sulla fede Rm 1,17.

Il capitolo terzo contiene la preghiera di Abacuc nella quale egli riconosce la giustizia di Dio.


IV.2.9 AGGEO

Tutta la predicazione di Aggeo si svolge nell’arco di meno di 4 mesi lunari - 108 giorni, essenzialmente rivolta al potere amministrativo e religioso, vale a dire al governatore Zorobabele ed al sommo sacerdote Giosuè, intesa a far ricostruire in Gerusalemme il Tempio ammonendo che il Dio d’Israele li ricompenserà con donerà nuova fertilità alla terra. A seguito della predicazione di Aggeo e di Zaccaria, ad opera di Zorobabele, che aveva avuto il benestare di Dario e Giosuè, la ricostruzione del Tempio iniziò nel settembre 520 a. C. e i primi sacrifici potettero essere ripristinati 4 anni dopo, 70 anni dopo la sua distruzione pur se la ricostruzione continuò per molti altri anni. La predicazione riportata dal libro di Aggeo si conclude con l’ultimo importante atto di profetismo, a cui in definitiva è teso tutto lo scritto: “In quel giorno - oracolo del Signore degli eserciti - io ti prenderò, Zorobabele figlio di Sealtièl mio servo, dice il Signore, e ti porrò come un sigillo, perché io ti ho eletto, dice il Signore degli eserciti.” (Ag 2,23)


SOFONIA

È composto da 3 capitoli e contiene vari oracoli del profeta Sofonia contenenti in particolare esortazioni agli Ebrei, giudizio delle nazioni, promessa di restaurazione. Vi si annuncia la venuta del giorno di Jahvè e del suo giudizio per il popolo ebraico che ha seguito dèi pagani ed ha commesso delle cattive azioni. Anche le nazioni vicine devono subire un giudizio, come i Filistei, i Moabiti, gli Etiopi e gli Assiri.

Solamente gli umili e i modesti resteranno vivi e sicuri sotto la protezione di Dio.

«Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d'Israele. Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna; non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta. Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti. » (So 3,12-13)

Il primo capitolo parla come in futuro il mondo si riempirà di corrotti. Il secondo capitolo esorta il popolo ebraico a ricercare la giustizia e l'umiltà. Il capitolo terzo parla della venuta del Messia quando tutte le nazioni si raduneranno per il combattimento. Ma il Signore regnerà in mezzo ad esse.

Il libro è composto di quattro brevi discorsi, e l'argomento è questo: poiché il tempio resta in rovina, Jahve ha colpito i prodotti della terra; ma la sua ricostruzione porterà un'era di prosperità; malgrado la sua apparenza modesta, questo nuovo tempio eclisserà la gloria dell'antico e la potenza è promessa a Zorobabele, l'eletto di Dio. La costruzione del tempio è presentata come la condizione per la venuta di Jahve e dello stabilirsi del suo regno: l'era della salvezza escatologica sta per aprirsi.


ZACCARIA

Il libro ha due sezioni. La prima Zc 9-14) contiene oracoli contenenti esortazioni per la ricostruzione del tempio di Gerusalemme. La seconda Zc 9-14): descrive in particolare l'esaltazione del re-messia e il sacrificio di un "trafitto" dal quale deriva salvezza.

Il tema comune delle due sezioni è una forte speranza messianica. La tradizione cristiana ha visto nel "trafitto" una prefigurazione di Gesù.


MALACHIA

Il libro si compone di sei brani costituiti sullo stesso tipo: Jahve, o il suo profeta, lancia un'affermazione che è discussa dal popolo o dai sacerdoti, e che è sviluppata in un discorso in cui si alternano minacce e promesse di salvezza. Ci sono due grandi temi: le colpe cultuali dei sacerdoti e anche dei fedeli (Mal 1,6), (Mal 2,9), (Mal 3,6-12), e lo scandalo dei matrimoni misti e dei divorzi (Mal 2,10-16). Il profeta annunzia il giorno di Jahve, che purificherà i membri del sacerdozio, divorerà i cattivi ed assicurerà il trionfo dei giusti (Mal 2,1-5.13-21). Il passo Mal 3,22-24 è aggiunto come conclusione della raccolta dei dodici profeti minori.















NUOVO TESTAMENTO

INTRODUZIONE

IL NUOVO TESTAMENTO è la raccolta dei 27 libri canonici che costituiscono la seconda parte della Bibbia e che vennero scritti in seguito alla vita e alla predicazione di Gesù di Nazaret; oltre alla persona di Gesù presentano le vicende della Chiesa nascente. Nuovo Testamento o Nuova Alleanza è un'espressione utilizzata per indicare il nuovo patto stabilito da Dio con gli uomini per mezzo di Gesù Cristo (cf. Lc 22,20; 1Cor 11.25), Messia atteso da Israele, morto in croce e risorto secondo le scritture di Israele, compimento di tutte le promesse dell’Antica Alleanza (Vetus Testamentum). I libri del NT sono scritti in greco con numerosi semitismi.

1. I QUATTRO VANGELI secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono la narrazione della storia della salvezza che si compie in Gesù di Nazareth, dalla sua nascita nel grembo verginale di Maria fino alla morte, resurrezione e ascensione in cielo.

2. ATTI DEGLI APOSTOLI. Si potrebbero chiamare il Vangelo della Chiesa, e narrano il prodigioso espandersi del Vangelo "in tutta la Giudea, la Samarìa e fino all’estremità della terra" (cf. At 1,8). Protagonisti sono prima Pietro, poi Paolo, l’apostolo dei pagani, che porterà il Vangelo nelle regioni del Mediterraneo orientale, fin dentro la casa di Cesare (cf. At 27,24) come prigioniero a Roma.

3. LETTERE DEGLI APOSTOLI (sono 21, delle quali 13 sono attribuite a Paolo, 1 attribuita a un suo discepolo, 3 attribuite a Giovanni, 2 a Pietro, 1 a Giacomo, 1 a Giuda). Sono i primi documenti scritti dagli apostoli (o da loro discepoli), per spiegare il Vangelo di Gesù nel divenire concreto della storia. Varie di queste lettere sono più antiche dei Vangeli, e ne riflettono il messaggio in modo vivo e originale, riproposto nel linguaggio greco allora comunemente parlato nell’area del Mediterraneo orientale.

4.APOCALISSE (o rivelazione), è il libro che conclude il canone della Bibbia. Scritta da Giovanni, prigioniero nell’isola di Patmos, interpreta le vicende della Chiesa perseguitata con immagini difficili e misteriose, anche come profezia della fine dei tempi.

5.Le date principali del Nuovo Testamento

La cronologia del Nuovo Testamento è sufficientemente attendibile nella sua impostazione generale, anche se la datazione di molti avvenimenti resta approssimativa.

6-7 a.C. NASCITA DI GESU’.

4 a.C. Morte di Erode il Grande.

4 a.C.- 6 d.C. Archelào etnarca di Giudea e Samarìa.

4 a.C.-37 d.C. Erode Antìpa tetràrca di Galiléa e Peréa.

6 d.C. Inizia il governo dei Procuratori romani.

27-28 Probabile inizio della predicazione di Giovanni Battista e della vita pubblica di Gesù.

30 Venerdì 7 aprile. Parascéve di Pasqua: è la data più probabile della MORTE DI GESU’.

32-35 Martirio di Stefano. Conversione-chiamata di Saulo-Paolo.

45-56 Viaggi missionari di Paolo.

49 Concilio di Gerusalemme: i pagani convertiti non sono tenuti all’osservanza della circoncisione e delle leggi e norme giudaiche. 

58-60 Paolo prigioniero a Gerusalemme e a Cesaréa. "Appello a Cesare".  Naufragio a Malta.  60-62? Prigionia romana e martirio.

64 Persecuzione di Nerone contro i cristiani; martirio di Pietro.

65-80 Redazione del Vangelo di Marco, di Matteo, di Luca e degli Atti degli Apostoli.

66-70 Guerra giudaica e distruzione di Gerusalemme.

90-100 Redazione del Vangelo di Giovanni.   

I quattro scritti originariamente non portavano il nome di Vangelo, che fu attribuito loro senza possibilità di equivoco per la prima volta da Giustino, nel II sec d. C. (Apol. 66, 3). Infatti il termine euangèlion non avrebbe mai potuto evocare l’immagine di un libro, ma piuttosto quella di un messaggio proclamato oralmente, che rende manifesta  la gioia e la salvezza del Regno di Dio, già presente. Con questo significato era stato infatti coniato dalla Bibbia dei LXX

l’AT scritto in greco dalla comunità ebraica di Alessandria d’Egitto nel III sec. a.C. (cfr. Is 52,7) e in modo simile lo rielabora S. Paolo nelle sue lettere riferendolo alla proclamazione del mistero pasquale tra i pagani (cfr. Rm 1,15–17).

I quattro Vangeli  nascono da un’opera di interpretazione e rielaborazione di tutto il materiale sia orale che scritto che riguardava Gesù alla luce del mistero della morte e resurrezione del Signore. Dal punto di vista letterario possiamo pensare che la loro redazione si sia realizzata organizzando in vario modo le diverse fonti di fatti e detti di Gesù attorno al racconto della passione, che sembra essere il brano unitario più antico ed esteso in ogni vangelo, tanto che un noto esegeta, M. Kähler, definì i vangeli come “racconti della passione con un’ampia introduzione”. Così i Vangeli non sono una semplice biografia su Gesù, ma  una narrazione della storia della salvezza che si è rivelata definitivamente in Gesù di Nazareth e si è compiuta particolarmente nel mistero della sua passione, morte e resurrezione (cf. At 2,22–24).

VANGELI SINOTTICI E VANGELI APOCRIFI

SINOTTICI

Sinòssi (dal greco "syn-opsis", “insieme visione”) vuol dire visione d’insieme, con uno stesso colpo d’occhio. Per il Vangelo il termine è usato in duplice senso: la lettura sinòttica e i Vangeli sinòttici. 

LETTURA SINOTTICA: consiste nel leggere in parallelo i quattro Vangeli avvicinando i brani di uguale contenuto: data l’importanza della parola di Dio è giusto che ogni brano di un evangelista sia meglio compreso e meglio interpretato mettendolo a confronto e integrandolo con i "passi paralleli" o le "concordanze" che si trovano negli altri evangelisti e che fanno risaltare le particolarità di ciascuno.

VANGELI SINOTTICI sono detti i Vangeli secondo Matteo, Marco e Luca, perché – se si scrivessero in colonne parallele l’uno accanto all’altro – si potrebbero leggere "in sinòssi", con uno stesso colpo d’occhio. Sono composti infatti in modo analogo, partendo da un identico schema, e raccontano spesso gli stessi episodi, a volte anche con lo stesso ordine e quasi con le stesse parole.

Evidentemente i tre evangelisti hanno avuto tra mano lo stesso materiale di partenza, le prime "raccolte" redatte dai testimoni, anche se poi hanno fatto ricerche personali e hanno scritto in modo autonomo. Marco ha ricordato soprattutto i fatti della vita di Gesù, mentre Matteo e Luca hanno raccolto anche molto materiale riguardante l’insegnamento di Gesù, per cui il loro Vangelo è quasi il doppio di quello di Marco.

Il materiale relativo ai fatti della vita di Gesù riportato da tutti e tre i sinòttici viene indicato come "la triplice tradizione"; quello relativo agli insegnamenti, riportato da Matteo e da Luca, come "la duplice tradizione"; quel che ciascuno ha di proprio risale invece a tradizioni diverse, conservate nelle comunità ove i tre testi vennero effettivamente redatti. Il Quarto Vangelo, quello di Giovanni, è strutturato in modo del tutto autonomo. Fu scritto dopo i tre sinòttici.   

La presenza di quattro Vangeli come testi liturgici e ispirati nella Chiesa è stata spesso per qualcuno un problema, soprattutto laddove i testi sembrano non armonizzarsi tra di loro. Il siriano Taziano nel IV sec. d.C. ha tentato un’opera di unificazione dei quattro eliminando i contrasti e sommando gli eventi diversi. Ne è nato il Diatèssaron che è stato per qualche secolo usato come testo liturgico dalle Chiese locali in Siria, ma che dopo qualche secolo verrà abbandonato. In realtà la differenza e perfino alcuni contrasti esistenti tra i Vangeli più che un problema devono essere considerati una risorsa. Infatti il mistero di Cristo è inesauribile e capace di generare letture diverse, pur dentro una fondamentale unità. Così Matteo, Marco, Luca e Giovanni, che a causa del diverso periodo di tempo in cui sono stati scritti e del diverso tipo di comunità a cui si rivolgono hanno  visioni teologiche anche molto distanti, ci rendono possibile l’accesso alla persona di Cristo da prospettive diverse, ma tutte compatibili, perché scaturenti dalla contemplazione della stessa persona. Anzi potremmo dire che proprio dove le discordanze sono maggiori, lì più si rivela l’ottica con cui ciascun evangelista guarda al mistero di Cristo, rafforzandone la complessa unità.

La Chiesa fin dai primissimi secoli ha considerato ispirati tutti e quattro i vangeli. Nell’operazione di selezione delle fonti ispirate la Chiesa è stata guidata anche da alcuni criteri: il primo è senz’altro la apostolicità, ossia il legame stretto tra il testo e gli apostoli, che erano ritenuti gli stessi evangelisti nel caso di Matteo e Giovanni, e che erano gli apostoli Pietro e Paolo in relazione rispettivamente al Vangelo di Marco e di Luca. Connesso al precedente c’è poi il criterio della fedeltà agli insegnamenti di Gesù e degli apostoli stessi, e infine il criterio dell’uso liturgico.

APOCRIFI

Con questo termine vengono comunemente indicati dei libri il cui contenuto è affine ai libri biblici ma che sono stati esclusi dal canone perché giudicati non ispirati.

Il termine apocrifo, deriva dal greco ἀπόκρυϕος ( apokrifos) e derivato di ἀποκρύπτω (apokripto) significa «nascondere», quindi viene utilizzato per indicare «ciò che è tenuto nascosto», «ciò che è tenuto lontano (dall’uso)».

Differenza sostanziale tra Vangeli Canonici e Vangeli Apocrifi.

I Vangeli Canonici sono stati scritti tutti in una data anteriore alla fine del primo secolo e, per questa ragione, ritenuti più congrui con quella che è la tradizione riguardante Gesù e gli Apostoli. Inoltre questi Vangeli già alla fine del I secolo avevano raggiunto una popolarità notevole, quindi una diffusione all’interno della Chiesa dell’epoca.

A sostenere il valore dei Vangeli Canonici troviamo Sant’Ireneo di Lione nel II secolo: difatti nel suo libro “Contro le eresie” esalta l’affinità e la veridicità dei quattro Vangeli (di San Giovanni, San Luca, San Marco e San Matteo) e condanna le sette gnostiche e i loro scritti apocrifi (dal greco “segreti”).

Per cui a definire i criteri per cui uno scritto fosse ritenuto come “Canonico” non è stata una manomissione della Chiesa – come tante volte la disinformazione fa circolare – bensì dei criteri che sono piuttosto oggettivi.

Quelli che sono riconosciuti come i Vangeli “non ufficiali” sono semplicemente i testi che si allontanano per data dalla tradizione di Gesù e che quindi non hanno raggiunto una riconoscibilità da parte dei primi fedeli della Chiesa.

I Vangeli Apocrifi sono suddivisi in:

La sostanziale differenza che si presenta in questi testi è la natura segreta delle rivelazioni contenute: Gesù si rivela solo con particolari nozioni e informazioni ai discepoli (quasi sempre apostoli) più meritevoli;

Il processo di formazione del canone dei libri biblici nella Chiesa (avvenuto tra la fine del II e la fine del IV secolo), la lista cioè di quelli che vanno considerati ispirati e normativi, porta ovviamente a escludere tutta una serie di altri testi, che vengono chiamati “apocrifi” (termine che deriva dal greco e significa “nascosti”). All’ inizio erano chiamati così i Vangeli gnostici, poi l’ appellativo venne esteso ad altri testi, con il significato di “spurio”, “falso”. Tra i criteri adottati per l’ accoglienza nel canone c’era la provenienza apostolica, la retta fede, la concordanza con il resto della Sacra Scrittura, il loro valore non circostanziato e la ricezione dello scritto da parte di autorità riconosciute. Evidentemente gli apocrifi vennero esclusi in quanto non rientravano in uno o più di questi criteri. Ciò non toglie tuttavia che essi rimangono importanti per conoscere la storia e la cultura cristiane dei primi secoli.

VANGELO DI MATTEO

La tradizione ecclesiastica antica ha considerato Matteo come il primo vangelo, scritto in lingua ebraica.

Una parte importante della critica recente invece ritiene Marco come il vangelo più antico; infatti le ricerche sul suo uso dei termini, mostrano che Matteo è stato scritto in greco, e sarebbe stato composto dopo la distruzione del Tempio, dunque tra gli anni 80/100. Tra i sinottici, quello di Matteo è il vangelo più esteso, più completo, il più strutturato e anche il più citato.

Il suo autore, Matteo, è un uomo di una certa cultura, un pubblicano = esattore delle tasse, di formazione ellenistica, tanto che pare abbia grecizzato il suo nome: Marco e Luca infatti lo presentano con il nome di Levi (di origine ebraica).

Purtroppo non sappiamo nulla di storicamente certo sull’apostolato di Matteo, né sulle circostanze della sua morte o del suo martirio.
La comunità per cui Matteo scrive il suo vangelo è di origine giudeo-ellenistica. Una comunità, o Chiesa, vicina alla Palestina, forse la comunità di Antiochia, dove si parlava la lingua greca.

L’evangelista Matteo e la sua comunità sembrano essere in lotta su due fronti. Da una parte Matteo si rivolge a un fronte interno, costituito, forse, da carismatici (Mt.7,21), che hanno una intensa vita religiosa (Mt.7,22), ma non osservano o addirittura rifiutano l’interpretazione della Legge data da Gesù, e perciò commettono iniquità (7,23). Contro costoro Matteo fa valere la continuità dell’autorità della legge, che non è stata abolita ma portata a compimento da Gesù (5, 17-20). Ma c’è sicuramente anche un fronte esterno, costituito dal giudaismo, che dopo la distruzione del Tempio nel 70, tentava di ricompattarsi attorno alla Legge e alle sue interpretazioni offerte dai rabbini farisei. Con questo giudaismo Matteo ha probabilmente ormai rotto i ponti ed è in aperta polemica. Lo si capisce dalle invettive contro ‘scribi e farisei’ (23,1-36) e dall’estraneità che esprime nei confronti delle ‘loro sinagoghe’ (4,23; 9,35; 10,17; 13,54; 23,34).
Lo stile del vangelo secondo Matteo è solenne, quasi liturgico ( è infatti il più usato nella liturgia). Il suo racconto é essenziale.

Il vangelo di Matteo si compone di sette parti nettamente distinte tra loro.
Il nucleo centrale è formato di cinque discorsi (Matteo si rifà al Pentateuco), ognuno dei quali è separato dagli altri da una formula sempre uguale:” Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi [parabole, istruzioni]…” ( Mt.7,28; 11,1; 13,53; 19,1; 26,1).

Prima di ogni discorso vi è una raccolta di fatti o miracoli, strettamente connessi al discorso stesso: Matteo vuole sottolineare che Gesù, Parola del Padre, è il vero dabar . In ebraico il termine ‘dabar’ significa parola-fatto, o fatto-parola.

La parola di Dio produce sempre un evento e gli eventi che Dio compie contengono sempre un messaggio, sono sempre eloquenti. Gesù compie dei fatti, e poi li evidenzia, li spiega con un discorso.

Prima e dopo il nucleo dei cinque ‘fatti e discorsi’, Matteo pone due sezioni. Una riguarda la nascita e l’infanzia del Messia, l’altra chiude il Vangelo e descrive la morte-risurrezione di Gesù.

Matteo è dunque strutturato come una cattedrale a 5 navate (i cinque discorsi) con un atrio (infanzia) e un’abside (morte e risurrezione).

I cinque ‘discorsi’ (dabar) sono in relazione coi cinque libri del pentateuco, come per dimostrare che Gesù è il nuovo legislatore, il nuovo Mosè.

- Introduzione e nascita di Gesù: Mt. 1-2:

genealogia

nascita

visita dei magi

fuga in Egitto

strage degli innocenti

ritorno a Nazaret.

Ognuno di questi fatti realizza un aspetto delle Scritture. Con Cristo inizia il tempo della realizzazione, del compimento della Salvezza. Matteo presenta chiaramente Cristo come il centro e il culmine della Salvezza.

1° discorso (o discorso del monte): Mt. 5-6 (preceduto dai fatti riguardanti l’inizio del ministero (Mt.3-4).

2° discorso: comprende una serie di miracoli (Mt. 8-9) e il discorso missionario (Mt. 10).

3° discorso: comprende l’opposizione alla missione del Messia (Mt. 11-12).

4° discorso: comprende i fatti riguardanti la fondazione della Chiesa (Mt. 14-17) e il corrispondente discorso ecclesiale (Mt. 18).

5° discorso: comprende eventi riguardanti l’opposizione o lo scontro diretto di Gesù con le autorità di Israele (Mt. 19-23) e il discorso escatologico (Mt.24-25).

Alla fine troviamo l’ultima sezione, che narra il compimento della vita del Messia: la sua passione, morte e risurrezione (Mt. 26-28).

Da questo schema si comprende facilmente come il vangelo secondo Matteo abbia uno scopo didattico: Matteo vuol porsi come un ‘maestro’ del Vangelo, un rabbino cristiano.

Egli è “lo scriba che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt. 13,52). Le cose nuove sono quelle realizzate da Cristo, il Messia. Sono le sue azioni e le sue parole. Le cose antiche sono le promesse fatte da Dio a Israele, i riferimenti che l’Antico Testamento ha nei confronti del Messia futuro. Sono ‘tipi’ ( profeti, eventi) che anticipano, preparano il Messia (l’ “antitipo”).

Il vangelo secondo Matteo è segnato all’inizio e alla fine da un richiamo che rappresenta il filo tematico di tutta la narrazione: l'annuncio della nascita dell’Emanuele “che significa Dio con noi” (Mt.1,22-23), e la promessa del Risorto: “Io sono con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt.28,20). Tutto il racconto evangelico è infatti incentrato sull’ ‘essere con noi’ di Dio in Gesù.

Siamo di fronte a un vangelo dottrinale, centrato sulla fondazione della Chiesa, nuovo Israele, dopo che l’antico Israele ha rifiutato il Messia.

La legge mosaica non è abolita, ma superata. L’alleanza operata da Cristo è il completamento delle alleanze passate. Legge e alleanza trovano in Cristo il loro compimento definitivo e universale.

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Don Doglio Vangelo di Matteo


VANGELO DI MARCO

Solo negli ultimi anni gli esegeti hanno riscoperto l’importanza e la bellezza del Vangelo secondo Marco, proprio perché nell’antichità questo scritto non fu molto utilizzato e commentato per via della sua brevità e per il suo contenuto del tutto simile ai vangeli di Matteo e Luca.

Sant’Agostino lo ritenne addirittura “Breviator Mattei”, una sintesi del Vangelo di Matteo.

Oggi lo scritto appare invece come un’opera fresca, vivace, spontanea, che mostra un profondo interesse ed entusiasmo per la figura di Gesù.

Oggi é considerato il Vangelo per i catecumeni.


Marco non fu né apostolo né discepolo di Gesù, ma discepolo e interprete di Pietro a Roma, quindi non è un testimone diretto dei fatti narrati nel suo scritto.

Sappiamo che aveva un doppio nome: il suo nome ebraico era Giovanni, il suo nome latino era Marco e con questo nome fu conosciuto nella chiesa apostolica. Nacque a Gerusalemme sotto l’imperatore Augusto nell’anno 25 d.C. circa e partecipò insieme al cugino Barnaba e a Saulo, divenuto Paolo, nel primo viaggio missionario a Cipro, ma per ragioni sconosciute egli tornò indietro per poi, in età matura intorno all’anno 50, ritentare l’avventura missionaria, ma Paolo si rifiutò di prenderselo di nuovo.

Dopo il martirio di Pietro a Roma nell’anno 67, non vi sono più notizie certe su Marco. La tradizione cristiana afferma che fu missionario in Egitto e fondò la chiesa d’Alessandria, della quale ne fu il primo vescovo. Secondo Eusebio, uno dei padri della Chiesa, la sua morte avvenne proprio ad Alessandria dove venne ucciso facendo trascinare il suo corpo per la città.

Il simbolo che lo rappresenta è il leone alato perché il suo vangelo inizia con la voce di Giovanni Battista che nel deserto, si eleva come ad un ruggito, preannunciando la venuta del Cristo.

Le notizie apprese dalla tradizione ci spiegano molte caratteristiche dello stile e del linguaggio di Marco.

Risulta chiaro che non scrive nella sua lingua materna, poiché il suo vocabolario greco risulta povero e lo stile imperfetto. Avrebbe potuto scrivere nella lingua latina ma questa era conosciuta quasi esclusivamente a Roma in Italia, mentre il Vangelo doveva essere letto anche fuori da questi ambiti.

Da buon scrittore ha compensato la povertà lessicale e di stile, con una vivacità e freschezza circa i fatti raccontati, presentandoli con ricordi circostanziati, vivi e ricchi di particolari. Marco, come Pietro, insegna raccontando e facendo in modo da poter ricreare agli occhi del lettore, quadri di storie colti come immagini fotografiche.

È un narratore popolare; ha il pregio della brevità e dell’essenzialità ecco il motivo del suo scritto così conciso e schematico.

Riguardo al tempo in cui il Vangelo fu scritto, dobbiamo tener conto che, secondo la tradizione, fu approvato da Pietro, il quale fu martirizzato sotto la persecuzione di Nerone probabilmente nell’anno 67. Marco quindi dovette scrivere prima di quella data, tra il 50 e il 60, ciò troverebbe conferma da un ritrovamento di un papiro che pare identifica la composizione dell’opera marciana in una data precedente all’anno 60 della nostra era, facendolo quindi essere il Vangelo più antico.

L’evangelista non ha scritto secondo un ordine cronologico perché ha seguito l’ordine logico della predicazione di Pietro che faceva la sua catechesi tenendo conto delle necessità degli ascoltatori. Egli perciò non ha avuto intenzione di trasmettere un resoconto storico della vita di Gesù, ma piuttosto testimoniare gli insegnamenti su Gesù fatti da Pietro in un particolare ambiente, quello di Roma, allo scopo di rafforzare nella fede i credenti in Cristo. Il suo scritto fu accolto come vangelo ufficiale sia perché trascriveva il racconto autorevole di Pietro, sia perché aveva avuto il nulla osta direttamente dallo stesso apostolo.

È l’unico Vangelo che presenta un autentico titolo: Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio (Mc 1,1), che designa il punto di partenza e la causa che ha determinato la stesura dell’opera. Il contenuto di Marco è infatti espresso con i termini uniti al nome di Gesù: Egli è il Cristo – Egli è il Figlio di Dio.

Il nucleo del messaggio consiste proprio nell’identificazione di Gesù con il Messia - Cristo, mandato da Dio e nel riconoscimento della sua qualità divina. I due vertici del racconto di Marco coincidono su due professioni di fede che incontriamo nell’opera: nelle parole di Pietro quando dice “Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente” (Mc 8,29);

nelle parole del centurione romano quando nel momento della crocifissione riconosce la divinità di Gesù: “Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio” (Mc 15,39).

Il Vangelo ha quindi una struttura semplice divisa in 2 parti con una breve introduzione, conclusione ed epilogo.

Titolo e finalità 1,1

Introduzione 1,2-13

I Parte ministero in Galilea “Tu sei il Cristo!” 1,14- 8,30

II Parte ministero in Giudea “Tu sei il Figlio di Dio!” 8,31-15,39

Conclusione 15,40 –16,8

Epilogo 16,9- 20

Alcune particolarità del profilo con cui l’evangelista presenta Gesù:

Il testo marciano è incentrato su Cristo e sulla sequela a lui, per questo nel narrare le sue vicende terrene Marco usa un procedimento letterario tale da comunicare al lettore l’umanità del Cristo, usando termini che esprimono i sentimenti e le emozioni da Lui provate insieme anche ai personaggi presenti nello scritto. Mentre negli altri vangeli Gesù viene descritto signore delle varie situazioni, maestro autorevole e sicuro, Marco ne mostra il lato di fatica, di paura e sofferenza come un vero uomo che con la sua vita fatta di gesti e parole quotidiane è entrato nella storia quasi a rimarcare il fatto che Dio è fra noi, con noi, come noi.

Altra caratteristica è la predominanza delle azioni compiute da Gesù nei miracoli, infatti per Marco questi gesti prodigiosi e straordinari definiscono la persona del Messia assieme al suo dinamismo, aspetto ricorrente in tutta l’opera. Con Lui il Regno di Dio si è fatto vicino cioè è finalmente giunto (Mc 1,15), ed è nelle opere miracolose che si possono pregustare i segni di questa irruzione divina nelle vicende dell’uomo attraverso la potenza di Dio.

L’evangelista sottolinea la necessità di accoglienza che l’uomo deve compiere verso Cristo, per questo la sequela al discepolato diventa momento fondamentale per arrivare ad avere una fede matura e consapevole.

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Vangelo secondo Marco don Doglio


VANGELO DI LUCA

Raccogliendo notizie sul Terzo Vangelo, attribuito all’evangelista Luca, ci accorgiamo che la sua opera si distacca in maniera sostanziale, per alcuni aspetti trattati, dagli altri scritti sinottici.

Luca si preoccupa fin dall’inizio di assicurare il lettore circa la fondatezza del suo testo, sottolineando l’accuratezza e l’ordine che la sua ricerca ha prodotto, raccogliendo con molta diligenza testimonianze di tradizioni orali e scritte sulla vita di Gesù. Il suo obiettivo infatti è quello di presentare Gesù come il Figlio di Dio e Salvatore dell’umanità.

È interessante evidenziare che nel Prologo sia indicato da Luca colui a cui viene indirizzato il suo Vangelo: Teofilo, un nobile il cui nome in greco significa amico di Dio o colui che ama Dio, a significare che a tutti coloro che cercano Dio e vogliono entrare in relazione con Lui, è esteso l’invito alla lettura dell’opera.

Luca era un credente proveniente dal paganesimo e originario di Antiochia in Siria, fu compagno di viaggio, durante la predicazione missionaria di Paolo ed era medico. Fu un uomo di cultura, sensibile a tutto ciò che merita attenzione, profondo conoscitore della letteratura e dei metodi compositivi della storia greca e molto capace non solo di fare ricerche storiche, ma di saperle poi tramandare con lucidità e abilità.

Oltre a queste capacità, Luca seppe raccogliere notizie sicure sulle vicende e gli sviluppi dell’attività missionaria della Chiesa nei suoi primi movimenti e nei successivi tentativi di espansione. Per questi fatti che non cadevano sotto la sua diretta osservazione è certo che si è scrupolosamente informato e ciò gli ha permesso di redigere gli scritti contenuti nel libro degli Atti degli Apostoli di cui è autore. Luca intende far conoscere il percorso salvifico che la Parola di Dio ha avuto nella storia dell’uomo, a partire dal ministero terreno di Gesù arrivando all’istituzione Chiesa. Il suo simbolo è il bue perché il suo Vangelo inizia con la visione di Zaccaria nel tempio dove si sacrificano animali come buoi e pecore.

Sono molteplici e svariate le caratteristiche del Terzo Vangelo, esse risaltano da un confronto sinottico.

Luca è stato chiamato il teologo della storia della salvezza, questo punto costituisce la prima peculiarità dell’intera sua opera in quanto sta indicare che i momenti nevralgici della storia accadono per un disegno superiore, il progetto di Dio.

La centralità della Pentecoste, evento che porta alla nascita delle prime comunità cristiane, della Chiesa  grazie alla presenza e all’azione dello Spirito Santo che si dilata nel tempo e nello spazio.

Particolare riferimento è dato anche alla figura di Dio Padre che egli ci presenta come fonte di bontà misericordiosa, pazienza, e capacità di attesa.

Dopo il Padre e lo Spirito Santo, Luca ci offre uno speciale spazio anche per la figura di Gesù, il Salvatore, l’evangelizzatore, ma soprattutto, il centro della storia della salvezza.

Dopo la parte dedicata alle singole persone della SS. Trinità, Luca ci offre una speciale immagine della Chiesa frutto dello Spirito Santo, comunità fondata sugli Apostoli, testimoni speciali della risurrezione del Signore, fedeli interpreti dell’evangelo, predicatori della salvezza in Cristo.

Centro geografico ma anche teologico della vicenda storica narrata lungo tutto il corso dell’opera è Gerusalemme, punto di partenza della vicenda terrena di Gesù e punto di partenza della vita della Chiesa nascente.

Un altro tema sul quale Luca dimostra una speciale apporto é quello alla Mariologia, sia per le memorie relative all’infanzia di Gesù (proprie del suo vangelo), sia il ricordo della presenza di Maria nel momento della nascita della nuova comunità di credenti. Lo dobbiamo solo a questo evangelista se buona parte di quello che conosciamo su Maria di Nazareth, è arrivato a noi.

La datazione del testo è risalente tra l’80- 90 d.C. Le fonti utilizzate da Luca nel redigere la sua opera sono presumibilmente il Vangelo di Marco, quello di Matteo e la fonte Q (Quelle= fonte in tedesco). Per quanto riguarda il luogo di composizione le fonti indicano: Roma, Antiochia, Acaia, Bitinia.

Possiamo suddividere il Vangelo secondo Luca in 6 grandi sezioni:

1.Prologo e Infanzia di Gesù:

All’inizio del Vangelo troviamo un proemio in cui Luca si rivolge a Teofilo a cui parla dello scopo, del contenuto, delle fonti e del metodo di ricerca e di composizione dello scritto. L’intento è quello di non far solo conoscere le vicende storiche di Gesù, ma di entrare nel dinamismo della storia della salvezza che trova nel Signore il suo epicentro e nella vita della Chiesa la sua dilatazione. I primi 2 capitoli del Vangelo dell’Infanzia di Gesù, costituiscono una grande unità letteraria e presentano:

2.Il trittico presinottico: la predicazione di Giovanni Battista, il battesimo di Gesù e le tentazioni di Gesù nel deserto. Questi 3 episodi costituiscono una grande unità letteraria alla quale tutti e tre i vangeli sinottici conservano in blocco, segno di una tradizione dal quale nessuno ha ritenuto di doversi scostare.

3.Il ministero in Galilea: questa unità comprende: il discorso solenne di Gesù nella sinagoga, il racconto di quattro miracoli e di cinque controversie, la scelta dei Dodici, accenno al discorso della montagna e la Trasfigurazione.

4.Il viaggio verso Gerusalemme: in questa sezione si evidenziano i grandi insegnamenti e precise istruzioni di Gesù rivolti ai Dodici per indicare loro il vivere e l’agire all’interno delle future comunità di credenti.

5.Ministero a Gerusalemme: Gerusalemme costituisce il vertice topografico ed ideale dell’attività di Gesù e il centro dell’opera lucana. Questi capitoli sono caratterizzati dal fatto che tutta l’azione di Gesù è compresa esclusivamente all’interno di questa città senza mai uscire e il Tempio diventa il banco di prova verso gli avversari e scuola per i suoi insegnamenti.

6. Racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù: il racconto della morte costituisce il nocciolo del Vangelo ed è su questo aspetto che non si distacca, per la grande somiglianza nella narrazione, dagli altri sinottici ma anche dallo stesso Giovanni. Luca inoltre in tutto il cap.24 narra non solo la Risurrezione di Gesù ma anche le apparizioni del Risorto e la sua Ascensione.

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Don Doglio vangelo di Luca

VANGELO DI GIOVANNI

Dei quattro Vangeli, quello di Giovanni è forse il più letto e il più citato.

Lo stile letterario è semplice, diretto, ma incredibilmente profondo. Mentre gli autori degli altri tre Vangeli narrano quello che Gesù fece, Giovanni decise di mettere per iscritto questa testimonianza quasi a voler completare l’opera dei precedenti Vangeli, fornendoci un quadro più completo della figura di Gesù e della sua natura divina.

Pertanto questo Vangelo non è un’esposizione biografica della vita di Cristo, ma una presentazione della sua opera a favore dell’umanità perduta, come possiamo leggere al capitolo 20, versetto 31:

«Ora Gesù fece in presenza dei discepoli molti altri segni miracolosi, che non sono scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome

È evidente una stretta correlazione fra i miracoli operati da Gesù e le dichiarazioni che egli fa su sè stesso, tutte precedute dall'espressione "Io Sono". Questa brevissima espressione per gli Ebrei dell'epoca significava moltissimo: Dio stesso si era presentato a Mosè dicendo "Io Sono colui che Sono", e il fatto che Gesù utilizzasse parte di questa frase per definire se stesso stava ad indicare che intenzionalmente stava definendosi come Dio.

Qui sotto riportiamo alcune di queste dichiarazioni, e vi invitiamo a completare l'elenco leggendo voi stessi il Vangelo e trovando i punti in cui Gesù definisce se stesso: ogni volta c'è qualcosa di profondissimo da apprendere sulla Sua figura e sulla Sua divinità.

Al capitolo 4, parlando alla donna samaritana, Gesù si definisce per la prima volta IO SONO, in risposta a lei che cita il Messia. In questo caso non stava semplicemente confermando di essere il Messia, ma di essere contemporaneamente Dio.

Al capitolo 6 troviamo la moltiplicazione dei pani e dei pesci,  e subito dopo si autodefinisce come “pane della vita disceso dal cielo”, cioè colui il quale può saziare la fame spirituale di ogni uomo.

Sempre al capitolo 6 troviamo Gesù che cammina sulle acque: Egli è colui che governa le leggi del creato perchè Egli stesse le ha stabilite.

Al capitolo 8 dice "Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita", subito dopo aver salvato la donna adultera da una lapidazione certa

Al capitolo 9 ribadisce "io sono la luce del mondo" dopo aver guarito un uomo nato cieco.

Nel capitolo 11 l’amico Lazzaro, morto da tre giorni, viene restituito alla vita. Gesù dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà.»

Gesù non solo ha dimostrato di poter richiamare in vita coloro che erano morti: con la sua resurrezione ha dimostrato di aver sconfitto la morte, e che il suo essere Dio non sarebbe potuto mai venire meno (al capitolo 20).

La resurrezione sta alla base del cristianesimo, è l’elemento su cui poggia tutto il messaggio cristiano. Durante il lungo discorso che Gesù tiene dopo la moltiplicazione dei pani (al capitolo 6), per ben tre volte leggiamo: «... e io lo risusciterò nell’ultimo giorno», espressione che indica che, per coloro che credono, la resurrezione di Cristo è garanzia che anch'essi risusciteranno.

Gesù continua ad operare a favore dei suoi discepoli e, proprio perché è risuscitato, coloro che gli appartengono possono confidare nella sua presenza e nel suo soccorso.

Circa metà dell’intera opera è dedicata alla settimana precedente la crocifissione di Gesù e ai discorsi più intimi che egli fece ai suoi discepoli. Fu durante questi discorsi che il Maestro promise loro il dono dello Spirito Santo, il quale avrebbe ricordato e aiutato a capire i suoi insegnamenti. Prima di essere arrestato, Gesù rivolse al Padre una magnifica preghiera per i credenti di tutti i tempi, ed è grazie a Giovanni che conserviamo queste preziose parole.

Per dare qualche coordinata sull'autore, possiamo dire che Giovanni era fratello di Giacomo, anche lui uno dei dodici apostoli. Insieme al padre Zebedeo, gestiva un’impresa di pesca a Capernaum, (Cafarnao) presso il lago di Galilea.

Giovanni era stato discepolo di Giovanni il Battista e quando quest'ultimo presentò Gesù come l’agnello di Dio, Giovanni divenne discepolo del nuovo maestro, uno dei primi cinque discepoli insieme a Pietro, Andrea, Filippo e Natanaele. In seguito, Gesù invitò Giovanni e suo fratello Giacomo a lasciare il loro mestiere per seguirlo e, da quel momento, egli divenne testimone oculare di quanto scritto nel suo Vangelo.

Dopo la resurrezione, Giovanni intraprese una grande opera di evangelizzazione insieme a Pietro e, durante le persecuzioni che ne seguirono, rimase a Gerusalemme come colonna della chiesa. Secondo la tradizione, egli visse ad Efeso fino a tarda età, prendendosi cura delle chiese dell’Asia Minore.

Il versetto forse più citato dell'intera Bibbia è Giovanni 3:16:

«Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna

Questo versetto è considerato il cuore della Bibbia, il testo che contiene il suo messaggio principale, il versetto che riassume l’intero insegnamento della Sacra Scrittura.


 https://youtube.com/playlist?list=PLCRPY8soW34Ziz7os95ntEMpWVw6Fjet3

don Doglio Vangelo di Giovanni

ATTI DEGLI APOSTOLI

Il libro degli Atti degli Apostoli è stato composto tra il 70 e l’80 d.C., poco tempo dopo la caduta di Gerusalemme. Originariamente scritto in greco, racconta la nascita delle prime comunità cristiane e le missioni di San Paolo. Il protagonista, oltre agli Apostoli, dell’opera è lo Spirito Santo e la sua azione.

Luca è l’autore degli Atti, e questo possiamo affermarlo per diversi motivi:

- Negli Atti, l’autore rivela di aver già scritto della vita di Gesù fino alla sua assunzione in Cielo. In effetti, il Vangelo di Luca è l’unico che termina con l’ascensione di Gesù al Cielo.

- Sia all’inizio degli Atti, sia del suo Vangelo, Luca fa riferimento ad una persona di nome Teofilo. Questo nome deriva dalla combinazione di due parole, Teo, il cui significato è Dio, e Filo, che significa innamorato di Dio. Il nome Teofilo sarebbe quindi ad indicare “innamorato di Dio”.

L’argomento del libro è la nascita ed espansione della Chiesa.

Si potrebbe anche definire, in altro modo più pregnante, come il resoconto sulla vita e l’attività dei discepoli di Gesù dopo la Sua morte.

Il racconto è articolato in tre parti principali, non racconta tutta la vicenda della chiesa nascente, riferisce in modo principale l’attività apostolica di Pietro e di Paolo in un contesto spazio temporale limitato ma ben definito.

Sono riferite solo le cose ritenute fondanti la vita della comunità: questo è molto importante perché è il luogo cui riferirsi sempre per conoscere la vera identità e intenzionalità della Chiesa.

I protagonisti principali sono Gesù, Pietro, Paolo, lo Spirito Santo.

PRIMA PARTE: la Chiesa in Gerusalemme

Gesù appare vivo agli undici istruendoli ed esortandoli. Promette loro il battesimo dello Spirito assegnando ad essi un compito preciso: essere suoi testimoni in tutta la terra.

La Chiesa dunque è strutturalmente missionaria e animata dallo Spirito Santo.

Senza queste due dimensioni non esiste Chiesa.

Lo Spirito Santo discende direttamente dal Cielo sugli apostoli e dona loro forza, potere di parlare, di testimoniare e compiere segni particolari: parlare in lingue.

Ne deriva la consapevolezza di vivere un’esperienza di salvezza (accade quanto predetto…) e si può fare un parallelo con lo Spirito ricevuto da Gesù nel Giordano.

I discepoli di Gesù vivono in una relazione particolare di comunione e amore:

-già prima della Pentecoste c’era un gruppetto particolare: tutti costoro attendevano costantemente con un cuor solo alla preghiera (vs 1,14).

-Dopo la Pentecoste assumono uno stile di vita particolare compendiato nei versetti 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16:

o      partecipano assiduamente alle istruzioni degli apostoli

o      pregano insieme con religioso timore (corretto rapporto con Dio)

o      vivono insieme e mettono tutto in comune

o      non risulta che tutti i discepoli avessero gli stessi carismi accordati il giorno di Pentecoste.

Pietro e Giovanni compiono un miracolo e affermano di agire in nome e per conto di Gesù: è lui che continua a operare (vv 4,11-12 e 5,13). Gli apostoli sono in grado di compiere miracoli e prodigi (vs 5,12).

La comunità è rifiutata e perseguitata come lo fu Gesù, prima Pietro, poi Stefano e infine  tutti i credenti.

SECONDA PARTE: la Chiesa si diffonde fuori Gerusalemme.

Anche i diaconi ricevono il potere di fare miracoli e prodigi e il mandato di evangelizzare. Quindi il potere degli apostoli si trasmette.

Così come con Pietro, anche attraverso Filippo sembra di assistere a una scena della vita di Gesù (vv 8,4-8).

Il battesimo non conferisce automaticamente lo Spirito Santo, ma è necessaria l’azione degli apostoli. Ci sono due modi per riceverlo: direttamente o per mezzo di alcuni uomini incaricati per questo, come gli apostoli (hanno imposto le mani ai diaconi e poi ai battezzati di Filippo (vv 8,14-17))  e Anania:

Lo Spirito non sembra produrre su tutti gli stessi effetti come il potere di fare miracoli, e di poterlo trasmettere. 

Lo stesso Spirito produce effetti diversi: vita comune, dono delle lingue, dono dei miracoli, dono di essere un incaricato alla missione.

Gesù si presenta vivo a Paolo e si identifica con i cristiani: ciò che accade loro accade a Lui stesso.

La Chiesa, nella persona di Pietro, istruito dall’alto, apre ai pagani (Centurione Cornelio).

Lo Spirito Santo scende, si effonde, su un gruppo di pagani in casa di Cornelio i quali, come a Pentecoste, parlano in lingue e magnificano Dio. Attraverso l’azione diretta di Dio i pagani sono inseriti nella storia della salvezza.

Alcuni termini che qualificano i cristiani come i seguaci della via, coloro che invocano il nome, coloro che sono salvati dai peccati, indicano chiaramente che il cristianesimo è un sistema di vita, una dottrina pratica, ma più ancora è una relazione vitale con Dio in Gesù Cristo.

PARTE TERZA: Paolo e la diffusione della Chiesa

Più della metà del libro degli Atti è dedicato al racconto dell’attività di S. Paolo.

Saulo, dopo l’incontro con il Signore risorto, predica a Damasco ma viene perseguitato a morte e subito dopo si reca a Gerusalemme.

È lo Spirito Santo che sceglie Paolo per l’opera di evangelizzazione ai pagani. Si distinguono quindi vocazione e missione.

La missione è fonte di diffusione del vangelo ma anche di persecuzioni feroci. Nel primo viaggio l’apostolo rischia la vita in tre città. Accoglienza e rifiuto sono i segni dell’autentico apostolato. Quella di Paolo è una vita travagliatissima, sicuramente non invidiabile.

Molto evidente è l’ostinazione di un gruppo ben identificato di giudei che si oppone con tutte le forze alla predicazione di Paolo ed è la fonte di tutti i suoi mali.

Il Concilio di Gerusalemme decreta il superamento della legge mosaica per accedere alla salvezza di Cristo. Questo è un fatto straordinario perché significa che il processo della salvezza inizia per un puro e gratuito atto di grazia.

Assieme al rifiuto e alle persecuzioni, Paolo ha la grazia di incontrare Gesù che lo consola e lo invita a perseverare nella missione affidatagli fino al suo compimento a Roma.

CONCLUSIONE

Gesù è salito in cielo, ma continua ad operare nel mondo attraverso la Chiesa. La guida attraverso alcuni uomini da lui scelti per completare la sua opera.

Gesù è la Chiesa, e la Chiesa è tale se rende presente Gesù che salva.

La Chiesa può agire e donare la salvezza solo per mezzo dello Spirito che la guida attraverso le situazioni concrete donandosi a quanti lo accolgono.

I predicatori del Vangelo incontrano nel mondo ostacoli, opposizione, persecuzione. Devono attraversare tutte queste situazioni fidandosi di Dio che permette le tribolazioni, protegge e salva solo quando lo ritiene opportuno.

Gli Atti degli Apostoli si chiudono con l’immagine di Paolo prigioniero a Roma ma in piena attività. A dire il vero il termine “chiusura” è improprio. Gli Atti, infatti, descrivono l’inizio della vita della Chiesa e il racconto di San Luca, a ben guardare, è una istruzione viva e senza tempo su come la vita della Chiesa dovrebbe svilupparsi. 


https://youtube.com/playlist?list=PLCRPY8soW34b01WLEpBkyWjByWhH0hhVu

Don Doglio Atti degli Apostoli

LETTERE DI SAN PAOLO

Le lettere di San Paolo sono l'insieme delle lettere che l'Apostolo Paolo scrisse alle comunità da lui fondate oppure ai suoi collaboratori, e che sono state riconosciute dalla Chiesa come canoniche.

Le lettere dell'apostolo che troviamo nel Nuovo Testamento sono le seguenti 

Lettera ai Romani

1a Lettera ai Corinti

2a Lettera ai Corinti

Lettera ai Galati

Lettera agli Efesini

Lettera ai Filippesi

Lettera ai Colossesi

1a Lettera ai Tessalonicesi

2a Lettera ai Tessalonicesi

1a Lettera a Timoteo

2a Lettera a Timoteo

Lettera a Tito

Lettera a Filemone

In passato era attribuita a Paolo la Lettera agli Ebrei. La critica biblica moderna esclude perentoriamente che sia dell'Apostolo delle Genti. La letteratura biblica parla di una Terza lettera di Paolo ai Corinzi, che è in realtà inclusa nell'attuale Seconda lettera ai Corinzi della Bibbia: la reale seconda lettera sarebbero i versetti 10,1-13,10, mentre la terza sarebbero i capitoli 1-7. Le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito prendono il nome di "lettere pastorali

1 LETTERA AI ROMANI

Per quanto riguarda la data e il luogo di composizione, gli studiosi sono concordi nell’indicare che Paolo abbia scritto intorno al 58 d. C. nella città di Corinto, durante il suo terzo viaggio missionario.

A Roma si era formata abbastanza presto una comunità cristiana, composta da credenti sia ebrei sia di origine pagana. La Bibbia non ci dice come il messaggio del Vangelo sia arrivato nella capitale dell’Impero. Forse ci fu qualche ebreo residente a Roma che si era convertito in conseguenza alla predicazione apostolica avvenuta il giorno di Pentecoste. Ricordiamo che per le grandi feste ebraiche gli appartenenti a questo popolo erano soliti venire a Gerusalemme per poi ritornare alle loro città. Paolo aveva ricevuto notizie della comunità romana dai cristiani Aquila e Priscilla i quali, come tutti gli altri ebrei, furono espulsi da Roma dall’imperatore Claudio. Al termine del suo terzo viaggio missionario, verso l’anno 58, Paolo cominciò a pianificare di recarsi in Spagna, includendo una visita a Roma, come leggiamo nell’ultimo capitolo di questa lettera (15,23).

Paolo scrisse ai cristiani che vivevano a Roma in primo luogo perché desiderava conoscere i credenti di Roma (1,13) e annunciare il Vangelo anche in quella città (1,12).

È probabile pure che sperasse di poter avere aiuto dalle chiese di Roma per la sua progettata missione in Spagna.

Nei primi 5 capitoli, Paolo affronta l’argomento dell’universalità del peccato: tutti hanno peccato, ma Dio giustifica ogni uomo per la fede che egli mette in Gesù Cristo, e non per le opere che compie. Siamo stati riconciliati con Dio grazie al sacrificio di Cristo, la condanna che pendeva sulle nostre teste si è abbattuta su Gesù: Lui ha pagato al posto nostro e noi, se accettiamo questo “scambio”, possiamo ricevere grazia. Questo è il messaggio del Vangelo!

Al capitolo 6, Paolo spiega che la grazia di Dio non autorizza il credente a vivere nel peccato, cioè in contrasto con ciò che piace a Dio; anzi, chi crede in Cristo è una nuova creatura e, in quanto tale, si comporterà in maniera coerente con la sua nuova posizione: questo processo viene chiamato santificazione.

Al capitolo 7, l'apostolo chiarisce il ruolo della legge mosaica, che fu data da Dio al popolo di Israele per far comprendere all'uomo la sua incapacità di osservarla e di “santificarsi” attraverso di essa. Gesù fu l'unico uomo in grado di osservarla in ogni suo aspetto.

Nel capitolo 8 Paolo introduce il tema della guida dello Spirito Santo nella vita del credente.

I capitoli da 9 a 11 si riferiscono a Israele, il popolo depositario delle promesse divine. L’allontanamento di Israele dalla presenza di Dio è temporaneo, ma verranno i giorni in cui tutto Israele sarà salvato.

Dal capitolo 12 fino alla fine della lettera, l’apostolo tratta dei vari aspetti della vita cristiana: i cristiani devono amarsi a vicenda, rispettare le autorità costituite, devono aiutare chi è debole nella fede, ricercando la pace e l’edificazione reciproca.

Il capitolo 16 si conclude con i saluti.

La lettura di questa lettera non sempre risulta semplice, perché Paolo tocca aspetti dottrinali di estrema importanza e profondità: al suo interno ci sono perle di inestimabile valore per la vita di tutti coloro che desiderano avvicinarsi a Dio e camminare con Lui.

https://youtu.be/bjOvG2J-QL8

Conosciamo la Bibbia - Lettere di Paolo - I Lettera ai Romani


2 PRIMA LETTERA AI CORINTI

Nella prima lettera ai Corinti l'apostolo Paolo trasmette alla comunità dei credenti la fede che egli stesso ha ricevuto e alla luce del Vangelo risponde ai loro quesiti su vari aspetti della vita cristiana.

Paolo fondò la comunità di Corinto nel corso del suo secondo viaggio missionario (50-52 d.C). Vi si recò dopo la dura esperienza vissuta ad Atene, dove venne deriso per l'annuncio che Gesù morto è risorto. A Corinto rimase circa un anno e mezzo tra notevoli difficoltà, mentre la città era governata dal proconsole romano Gallione, fratello del filosofo Seneca (51 d.C). 

Luca, autore degli Atti degli Apostoli, ricorda che Paolo, durante la notte, era incoraggiato dal Signore a non avere paura e a continuare la missione. Fra le lettere scritte da Paolo, quelle inviate alla comunità di Corinto, sono tra le più vivaci e dibattute. Il canone biblico contiene due lettere di Paolo ai Corinti. Di fatto Paolo ne ha scritte di più.

Ignoriamo, per esempio, la «lettera delle lacrime» (cfr. 2Cor 2,4), scritta da Paolo tra la prima e la seconda lettera ai Corinti e quella o quelle indirizzate dagli stessi Corinti a Paolo, come confermano i fugaci accenni di 1Cor 5,9 e 1Cor 7,1. La prima lettera mostra che la comunità è ricca di doni. L'apostolo ringrazia Dio (cfr. 1Cor 1,5-6) per questa ricchezza. Ma la comunità è lacerata da divisioni interne anche a causa di questi doni. Si va da una debole comprensione della fede cristiana, che fa vivere nel sincretismo religioso, a una vita morale discutibile. La città di Corinto, per la sua posizione geografica 'portuale', consentiva il passaggio di molte persone e l'ingresso di molte "religiosità"; era una città aperta, multiculturale e multireligiosa. Succedeva che ognuno si costruiva il proprio sistema religioso secondo le scelte personali e proposte religiose molte volte contraddittorie.

I temi della lettera mostrano la complessità della situazione. Paolo, con le risposte che dà, cerca di chiarire l'assurdità dei partiti nella comunità (1,10-4.21), nello stesso tempo invita la comunità a capire la croce di Gesù che orienta il cristiano ad andare controcorrente rispetto alla logica arrivista; mostra il suo sdegno contro comportamenti immorali (5,1-6,20); esprime la sua posizione in ordine al matrimonio e alla verginità (7,1-39); dà disposizioni circa la partecipazione delle donne alle assemblee, lo svolgimento della cena del Signore (11,1-34) e l'uso dei carismi e dei ministeri (12,1-14,40). Infine, afferma la nostra partecipazione alla risurrezione di Gesù (15,1-58).

In pratica questa lettera inizia con la proclamazione della sapienza della croce e termina annunciando la risurrezione. In questo modo Paolo indica che la comunità cristiana comprende se stessa alla luce del mistero pasquale di Gesù che deve permeare l'esistenza.


https://youtu.be/5esBe4Tr-Uc

Don Doglio 1 Corinzi



3 SECONDA LETTERA AI CORINTI

La seconda lettera ai Corinti è tra le lettere più personali e coinvolgenti dell'apostolo Paolo. Giustamente è stato fatto notare che questa lettera è la magna carta della missione paolina. In essa, infatti, egli affronta con coraggio le gravi e pesanti accuse che gli avversari muovevano nei suoi confronti per diffamarlo.

Essi sostenevano che l'apostolo mercanteggiasse la Parola di Dio (2 Cor 2, 14-17), sfruttasse i Corinti (cfr. 2 Cor 11, 7- 15); il suo ministero non s'imponeva e non mostrava segni esterni potenti, che ne convalidassero l'importanza (2 Cor 10-13); il suo linguaggio, inoltre, non era elegante: "Le lettere - si dice - sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa"; "E se anche sono un profano nell'arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a voi" (cfr. 2 Cor 10, 10; 11, 6).

Non possiamo stabilire quando e da dove esattamente Paolo abbia scritto questa lettera perché essa come anche la prima ai Corinti è il risultato delle numerose lettere che Paolo ha inviato a questa difficile comunità. Dallo scritto deduciamo che Paolo andò a Corinto per una breve visita chiarificatrice. Essa, tuttavia non raggiunge il suo scopo. Paolo anzi sembra essere stato offeso in pubblico (2,5-11). Scrive quindi la lettera detta "delle lacrime" cui fa accenno in 2,4 che, però, non ci è pervenuta. In seguito, Tito, inviato da Paolo a Corinto, dopo che Timoteo non era riuscito a mediare le relazioni tra la comunità e l'apostolo, risana le relazioni e ottiene il pentimento dei membri della comunità (7,6.16).

La seconda lettera ai Corinti, così come noi la possediamo, mostra che Paolo scrive alla comunità per spiegare l'onestà del suo comportamento e la sua fedeltà al ministero che Dio gli ha affidato, per benedire Dio dell'avvenuta riconciliazione. Confida loro che il ministero apostolico è grande ma è caratterizzato, come quello di Gesù, dalla sofferenza, (cc. 1-7).

In questi capitoli Paolo manifesta la sua certezza che la missione è servizio gratuito, libero da ogni forma di arrivismo e, comunque, da atteggiamenti egoistici. L'apostolo ogni giorno, come Gesù, consegna la propria vita perché coloro che ricevono l'annuncio possono vivere. Egli è servo dei cristiani, ma per amore di Cristo Gesù (4,5). Nei capitoli 8-9 raccomanda la raccolta di offerte per la chiesa di Gerusalemme come segno della gratuità di Gesù, che da ricco che era si fede povero per arricchire noi (8, 9). Difende, infine, la sua identità apostolica e il suo apostolato con forza e anche con un linguaggio polemico contro coloro - i veri falsi apostoli - che diffondono dubbi in merito (cc. 10-12).

La seconda lettera ai Corinti è ricca di frasi lapidarie con le quali Paolo sintetizza la sua esperienza apostolica. Eccone alcune: Dio è definito 'Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione' (1,3); L'apostolo si paragona a 'un vaso di creta che possiede un tesoro' (4,7). E inoltre queste calde espressioni: 'La carità di Cristo ci spinge'; 'Lasciatevi riconciliare con Dio'; 'Quando sono debole è allora che sono forte'; 'Ti basta la mia grazia'; 'Cristo ci possiede'.

Paolo conclude con un inatteso saluto trinitario che è divenuto formula liturgica: 'La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi' (13,13).

https://youtu.be/6iUCyFuM7_U

Don Doglio 2 Corinzi


4 LETTERA AI GALATI

Paolo indirizza questa lettera "alle chiese della Galazia" (1,21), non a una singola comunità, ma a diverse comunità situate in questa regione. La Galazia antica, che corrisponde all'attuale Turchia, comprendeva, infatti, varie regioni: la Galazia del Nord, la Galazia del Sud e altre regioni meridionali quali la Pisidia, Licaonia e Panfilia. È difficile, per questo, precisare in quale parte della Galazia risiedessero le comunità fondate da Paolo e alle quali invia questa lettera. Il fatto che Paolo parli in genere di Galazia, fa concludere che l'apostolo attraversò il cuore del paese e non solo la parte meridionale dove si era già recato durante il primo viaggio. Dai ricordi dell'apostolo sappiamo che l'evangelizzazione avvenne in modo inatteso e fuori programma. Egli stesso ricorda: "Sapete che durante una malattia del corpo vi annunciai il Vangelo la prima volta; quella che, nella mia carne, era per voi una prova, non l'avete disprezzata né respinta, ma mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù" (4,13-14).

L'evangelizzazione della terra galata avvenne, dunque, per volere di Dio che, a causa di una malattia, difficile da precisare, cambiò i piani di Paolo e permise che i cittadini galati vedessero, in Paolo malato, un angelo di Dio, e accogliessero il Vangelo con gioia. Alla sua partenza, quando giunsero gli avversari dell'apostolo, i galati, con altrettanta facilità, credettero alle loro insinuazioni contro Paolo fino ad abbracciare la religiosità giudaica.

Paolo preoccupato e addolorato scrive per chiarire l'autenticità del suo annuncio, la centralità di Gesù, e l'identità della libertà cristiana. Questa lettera può essere considerata il documento che chiarisce l'identità della fede cristiana, l' amore di Paolo verso il Vangelo e il suo impegno pastorale per la crescita nella fede dei cristiani.

L'apostolo per aiutare i cristiani galati a ritornare a Gesù non teme di chiamarli 'stolti'. Essi non avevano riflettuto, per questo non avevano capito di essere caduti nell'inganno. Dopo averli ammoniti, con amore di padre e di madre, li chiama 'figli carissimi' per i quali è disposto a ricominciare l'evangelizzazione con dedizione materna. E in termini commossi conclude: "per voi sono disposto di nuovo a soffrire le doglie del parto finché Cristo si formi in voi" (Gal 4.19). In questo modo precisa che la fede cristiana non è adesione a una dottrina e osservanza esteriore di pratiche morali, ma trasformazione continua in Cristo fino alla morte. L'apostolo, missionario verso le comunità, è come il pastore che si prende cura dei cristiani e vive nei loro riguardi atteggiamenti educativi paterni e materni.

Più precisamente nella lettera ai Galati, dopo l'introduzione epistolare, che presenta la narrazione autobiografica della conversione di Paolo dalla religione giudaica all'adesione a Gesù (1,1-2,21), tratta il rapporto tra pratica della legge e fede cristiana che rende "figli di Dio" liberi e responsabili (3,1-4,31) e, infine, affronta il tema dell'etica cristiana (5,1-6-10) che è libertà dal proprio egoismo per essere a servizio gli uni verso gli altri, come Gesù ci ha amati.

https://youtu.be/2HY1bVKBgtI Papa Francesco


5 LETTERA AGLI EFESINI

 Più che una lettera indirizzata a una comunità concreta, la lettera agli Efesini è una 'circolare' o 'lettera enciclica', inviata - come dice il testo - a tutti i credenti: "a tutti coloro che amano il Signore nostro Gesù Cristo" (cfr. 6,24).

L' articolazione dei contenuti è chiara: tra la presentazione (1,1-2) e i saluti finali (6,21-24) vi è il corpo della lettera, introdotto, a sua volta, da una solenne benedizione iniziale (1,3-14). Questa benedizione, che ha la forma di un testo liturgico, mentre riprende i temi della benedizione (berakah) ebraica (1,3-14) annuncia che in Cristo la benedizione divina è finalmente compiuta. Si sono realizzati la volontà divina di salvezza, la figliolanza adottiva in Gesù e il mistero della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Alla preghiera di benedizione segue la prima parte della lettera (1,15-3,21) che descrive la rivelazione del mistero di Dio in Cristo e della Chiesa sua presenza concreta nella storia, sacramento di unità, luogo di unione tra giudei e pagani, ma anche dell'intera umanità (1,15-3,21). Gesù è definito 'nostra pace' (2,14) perché la pace non è assenza esteriore di guerra, ma il frutto della relazione con Lui che distrugge l'inimicizia e riconcilia i diversi e i nemici. Dio è presentato Padre di tutti (4,6); non solo misericordioso, ma ricco di misericordia che ci ama con grande amore (2,4). I verbi, tutti al tempo indicativo, suscitano un atteggiamento di contemplazione e stupore dinanzi alla salvezza realizzata.

La seconda parte (4,1-6,20), con i verbi all'imperativo, indica le caratteristiche della vita nuova del cristiano. La vita etica scaturisce naturalmente dall'essere salvati da Gesù e a vivere in lui. La contemplazione si fa azione concreta cristiana.

I cristiani impegnati a «imparare Cristo» (4,20) testimoniano la loro fede nelle scelte etiche concrete, a partire dalla vita familiare. La famiglia è una piccola Chiesa (5,21- 6,4) i rapporti familiari riproducono l'amore gratuito di Gesù per la sua Chiesa, per la quale ha dato la vita. La vita cristiana è dinamica. La bellissima metafora dell'abito vecchio da buttare e di quello nuovo da indossare in continuazione ne descrive il dinamismo. I cristiani si svestono dell'uomo vecchio, che è vita senza Cristo e nel peccato, per indossare l'uomo nuovo, cioè i valori di Cristo ricevuto nel battesimo, che si fa realtà concreta: «vi esorto di comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell'amore, avendo a cuore di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace... » (4,1-3).

https://youtu.be/ZsEgkrWIPXU

don Pierino Ongaretti lettera agli Efesini


6  LETTERA AI FILIPPESI

La Lettera ai Filippesi appartiene al gruppo delle lettere dette "della prigionia". Ha uno stile affettuoso è cordiale.

 I pareri degli studiosi sono diversi circa il luogo e il tempo di redazione. Alcuni, basandosi sulla frequente comunicazione con la comunità di Filippi - che invia Epafrodito, e poi Paolo invia loro Timoteo - propongono la città di Efeso. Quindi durante il terzo viaggio missionario. In questa città, Paolo visse due anni ed ebbe diversi scontri con gli Efesini. Egli stesso ricorda che ad Efeso rischiò la vita (2Cor 1,8). Altri, invece, basandosi sul fatto che Paolo scrive dalla prigione, sono del parere che si tratti della prigionia romana, quando Paolo finì a Roma per essere giudicato dal tribunale romano.

Alla comunità di Filippi Paolo scrive per la gioia di condividere con i suoi amici gli effetti positivi della prigionia. I Filippesi erano preoccupati perché Paolo era stato ingiustamente imprigionato e volevano aiutarlo in tutti i modi, nelle necessità concrete e con offerte in denaro. Paolo li esorta a vivere nella gioia e comunica loro che la sua prigionia contribuisce alla crescita del Vangelo, che è lo scopo della sua vita (cfr Fil 1,12). Proprio le catene testimoniano ai suoi carcerieri che egli è apostolo di Gesù Cristo.

Anche in questa comunità, purtroppo, s'infiltrano i suoi avversari che vogliono distogliere i Filippesi dall'apostolo e suscitare dubbi nei suoi riguardi. Paolo, a prova dell'autenticità della fede che annuncia, narra con emozione il cambiamento della sua vita, che ebbe luogo con la sua adesione a Gesù. Cambiamento che da persecutore dei cristiani lo rese il perseguitato per Gesù. È il capitolo terzo, che si presenta come una piccola autobiografia. Paolo in pochi versetti sintetizza il suo passato senza Gesù e il suo presente luminoso in Gesù, che considera il bene assoluto della sua vita. Presenta, infine, il suo futuro verso il quale concentra le sue energie, che consiste nella piena comunione con Gesù dopo la morte.

In questa lettera vi sono preziosi consigli per vivere la vita cristiana nel contesto sociale. In particolare l'attenzione a scegliere ciò che veramente ha valore e, naturalmente, favorisce la crescita nell'identità cristiana. La preghiera iniziale termina, appunto, con l'augurio/preghiera che la comunità possa crescere nel discernimento fino a giungere a una sensibilità spirituale che ama e sceglie ciò che veramente conta (cfr 1,9-10). In questo cammino, Gesù è il modello unico e sicuro. I cristiani se vogliono divenire comunità autentica non hanno che da vivere le loro relazioni fraterne come Gesù si è comportato verso di noi tutti: «Abbiate in voi i sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5).

Anche Paolo è modello di come si sceglie e segue Gesù amandolo nei fratelli. Egli fonda la sua vita nella fede in Gesù, che considera il suo Signore. I Filippesi dovranno seguire questo esempio (Fil 1,23-34; 3,8-9; 3,17; 4,9).

Paolo, nel concludere la lettera, invita i Filippesi ad avere un atteggiamento positivo verso il loro ambiente. Essi da una parte devono fare attenzione a ciò che non è conforme al Vangelo e devono anche essere capaci di accogliere ciò che non contraddice la fede cristiana e in un certo modo la esprime. Questo insegnamento è testimoniato nel breve augurio ad accogliere tutto ciò che è vero, giusto, nobile e merita lode (4,8).

Molto importante in questa lettera é il famoso inno cristologico (2,6-11)

https://youtu.be/5bZzFAb51KE

Don Pierino Ongaretti lettera ai Filippesi 1


7 LETTERA AI COLOSSESI

La lettera ai Colossesi, con la lettera agli Efesini, fa parte del secondo gruppo di lettere attribuite all'apostolo Paolo. Sono dette lettere deuteropaoline, perché sono successive alle sette lettere attribuite a Paolo. Si distinguono da esse per lo stile solenne e a volte ridondante; per i termini nuovi, come ad esempio: inchiodare, rappacificare, cose di lassù...

A motivo di queste caratteristiche si ritiene che gli autori siano fedeli discepoli di Paolo.


Sono dette anche lettere della prigionia perché l'apostolo si presenta prigioniero. Le corrispondenze di espressioni e di frasi, tra queste due lettere, sono numerose. Questa constatazione ha indotto molti studiosi a credere che Efesini dipenda da Colossesi, quasi ne sia un ricalco. Non è semplice precisare che cosa sia avvenuto nella trasmissione di questo testo sacro. Sappiamo, per certo, che queste lettere testimoniano l'importanza del pensiero di Paolo per la vita della Chiesa delle origini. Dopo la morte dell'apostolo, infatti, i suoi collaboratori fedeli hanno saputo interpretare Paolo nella nuova situazione socio ecclesiale.

La comunità di Colossi, città situata a nord di Efeso (Asia minore e oggi Turchia), era stata fondata da Epafra, discepolo di Paolo. Questa comunità era costretta a confrontare la propria fede cristiana su due fronti: con le comunità giudaiche, che propugnavano la pratica della legge, e con le filosofie pagane di quella cultura. Esse erano mescolate a religiosità strane le quali proponevano una visione religiosa sincretista di tipo orientale che ammetteva, tra Dio e l'umanità, degli spiriti celesti che bisognava venerare. Gesù sarebbe stato uno di questi spiriti.

Paolo o i suoi fedeli discepoli, nella prima parte della lettera (1,1-2,23), affermano che solo Cristo Gesù, morto e risorto è Figlio di Dio. Egli è al di sopra di tutti anzi è l'unico! Solo a lui i credenti prestano culto, perché solo in lui risiede la pienezza della divinità. Li esorta perciò a rimanere saldi nella fede e a non lasciarsi allontanare dalla Vangelo ascoltato (1,23). In queste lettere è sviluppata la teologia della Chiesa come Corpo di Cristo nella storia. La parola 'Corpo' indica presenza concreta, storica e relazionale.

Cristo risorto è il capo del corpo che è la Chiesa. Capo significa autorità, origine, la sorgente dalla quale proviene al corpo la sua vitalità. La Chiesa è Gesù con i credenti, che battezzati nel suo nome, lo interpretano nella storia.

Nella seconda parte (3,1-4,18) l'autore mostra come il cristiano che appartiene a Cristo, ed è membro della comunità/chiesa, vive la fede nella storia concreta. Le norme pratiche che egli osserva scaturiscono dalla profonda assimilazione del suo 'essere in Gesù Cristo'. Per questo avendo lasciata, grazie al battesimo, la vita pagana, che Paolo definisce 'uomo vecchio', il cristiano vive la novità cristiana (uomo nuovo) che gli fa cercare le cose di lassù (Col 3,1), cioè i valori di Gesù: bontà, pace, perdono e soprattutto carità che esprime nella vita familiare, nella comunità cristiana, negli ambienti che frequenta.

https://youtu.be/VJRvVSBf3lQ

Don Pierino Ongaretti lettera ai Colossesi 1


LETTERE AI TESSALONICESI 

Negli Atti degli Apostoli l'evangelista Luca narra che Paolo, nel suo secondo viaggio missionario, dopo aver evangelizzato la città di Filippi, fu costretto a fuggire a causa di una violenta persecuzione scatenata contro i missionari. Giunge così a Tessalonica. Gli abitanti della città lo accolgono, si lasciano coinvolgere dalla sua predicazione e si convertono. Ben presto arrivano i suoi avversari. Paolo fugge un'altra volta. Si reca a Berea e da qui passa ad Atene. Il suo pensiero è rivolto ai Tessalonicesi ben disposti al Vangelo, ma ai quali non aveva potuto completare l'annuncio cristiano. Teme che questi giovani cristiani, messi alla prova dai suoi nemici, possano abbandonare la fede cristiana e dubitare della sua correttezza. Paolo è fortemente preoccupato. Scrive: "Non potendo resistere mandai Timoteo per completare ciò che manca alla vostra fede" (1Ts 3,10). Timoteo al suo ritorno porta buone notizie.

I Tessalonicesi, nonostante le tribolazioni e la persecuzione, vivono la fede come Paolo l'aveva loro comunicata e conservano un ricordo affettuoso della sua persona.

Hanno, tuttavia, bisogno di consigli per capire meglio la fede cristiana e crescere in essa. Desiderano conoscere la sorte riservata ai morti. Le buone notizie circa i Tessalonicesi sono l'occasione di questa prima lettera di Paolo. L'apostolo manifesta il suo stupore riconoscente verso Dio che ha sostenuto i cristiani di Tessalonica nella prova, e verso i missionari che Dio ha reso fedeli ministri del Vangelo in mezzo a molte lotte.

8. PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI

La prima lettera ai Tessalonicesi, primo scritto del Nuovo Testamento, può definirsi la lettera della riconoscenza. Tre volte, infatti, Paolo ringrazia Dio. All'inizio (1, 2-3) perché i Tessalonicesi vivono una fede concreta e impegnata, sono costanti nella speranza e la loro carità è operosa; nel capitolo secondo (2,13) perché nella predicazione di Paolo hanno saputo vedere e accogliere la parola di Dio; infine (3,9-10) per la gioia che le buone notizie suscitano nel cuore di Paolo e si fanno desiderio e augurio di un nuovo incontro. Dopo il ringraziamento, nei capitoli 4-5, Paolo impartisce istruzioni concernenti la vita cristiana, la fede nella risurrezione e il comportamento del cristiano nella storia in attesa del ritorno certo del Signore. Paolo assicura i cristiani di Tessalonica, addolorati per la morte di alcuni, che dopo la morte «siamo con il Signore».

Questa lettera regala una delle più belle immagini di Paolo apostolo. L'apostolo interpreta il suo atteggiamento missionario non come quello di un funzionario stipendiato, ma da ministro di Dio profondamente coinvolto nella missione che gli fu affidata. Egli, per questo, verso i Tessalonicesi si è comportato come una madre che si prende cura dei figli che porta nel grembo e come un padre che educa, esortando e incoraggiando i suoi figli per renderli adulti, veramente responsabili.

https://youtu.be/L4o8bqkWI-4

Don Pierino Ongaretti 1 Tessalonicesi


 9. SECONDA LETTERA AI TESSALONICESI

La seconda lettera ai Tessalonicesi si presenta con gli stessi mittenti della prima: Paolo, Silvano e Timoteo.

Il responsabile è, comunque, Paolo. Molti studiosi dubitano dell'autenticità paolina di questa lettera. Lo stile non è cordiale e affettuoso come quello della prima lettera. Coloro che la ritengono autentica affermano che Paolo l'ha scritta da Corinto poco tempo dopo aver inviato la prima lettera. Paolo l'avrebbe scritta per correggere degli errori che circolavano a Tessalonica circa la seconda venuta del Signore, detta parusia. La maggioranza degli studiosi ritiene, invece, che questa lettera sia stata scritta da un discepolo di Paolo verso la fine del primo secolo per interpretare la prima lettera ai Tessalonicesi. La seconda lettera ai Tessalonicesi sarebbe, dunque, un importante documento che testimonia la riflessione che maturava intorno al messaggio che Paolo aveva comunicato o scritto. Testimonia, inoltre, l'autorevolezza di cui l'apostolo godeva. Il suo jnsegnamento, infatti, non veniva dimenticato ma interpretato nelle nuove situazioni. Per questa ragione la seconda lettera ai Tessalonicesi è considerata deuterocanonica. Se la seconda lettera ai Tessalonicesi è scritta dai suoi discepoli il luogo di composizione dovrebbe essere Tessalonica, perché era lì che si leggeva la prima lettera inviata ai Tessalonicesi.

Tema fondamentale della lettera è l'escatologia, vale a dire, la fine della storia, quando il Signore risorto ritornerà.

I cristiani di Tessalonica avevano capito, erroneamente, che questo ritorno era immediato. Per questo motivo nella comunità sorsero vari disordini: alcuni vivevano nell'ozio "senza fare nulla e sempre in agitazione"; altri fomentavano allarmismi ingiustificati. La lettera placa le persone turbate e invita gli oziosi ad assumersi la loro responsabilità nella vita comunitaria e nella situazione concreta nella quale vivono. Paolo esorta a lavorare concretamente per guadagnarsi il pane. Chi non lavora per il proprio mantenimento diviene un peso per la comunità. L'apostolo invita piuttosto a non stancarsi mai nel fare il bene. Incoraggia all'impegno concreto presentandosi come modello di lavoro anche manuale: "Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare" (2Ts 3,5-7).

La seconda lettera ai Tessalonicesi assicura la vittoria finale di Dio sul male che agisce nella storia. Il Signore verrà. Non sappiamo quando. Nell'attesa del suo ritorno, il cristiano vive nella speranza della salvezza e testimonia una fede impegnata e operosa. Paolo esorta: "Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla nostra parola sia dalla nostra lettera. E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene" (2Tes 3,15-17).

https://youtu.be/l-9wltHwGUY

Don Pierino Ongaretti 2 Tessalonicesi


10. PRIMA LETTERA A TIMOTEO

La prima lettera a Timoteo è la più lunga delle tre lettere dette pastorali. A differenza della seconda, che presenta i tratti di un testamento pastorale e insiste sulla relazione discepolare di Timoteo verso Paolo, la prima lettera è più esortativa. Non mancano, tuttavia, riferimenti espliciti all'esperienza di Paolo che sono esempio di conversione, valido per Timoteo e per tutti i cristiani.

Paolo afferma che quando perseguitava i cristiani agiva per ignoranza. Si definisce peccatore, graziato dalla misericordia di Dio che gli ha donato la fede. La misericordia di Dio è a disposizione di tutti (1Tim 1,13). Paolo, commosso dall'azione di Dio, trasforma il richiamo al suo passato, senza fede in Gesù, in una lode alla misericordia di Dio.

In questa lettera sono pure presenti tracce di piccoli inni liturgici che si recitavano nelle assemblee cristiane (cfr 3,16b e 6,15-16). Questi piccoli frammenti testimoniano le confessioni di fede della comunità cristiana vissuta verso la fine del primo secolo dopo Cristo.

Centrale in tutta la lettera è il tema del disegno di Dio, che si attua nella fede (1,4), e dell'amore di Dio verso tutti, che richiede una risposta fedele e coerente. Per rimanere nel disegno di Dio, occorre essere perseveranti nella fede e rimanere nella retta dottrina, messa alla prova da false proposte. La perseveranza è richiesta in primo luogo a Timoteo, il cui esempio di fortezza aiuterà i fedeli a resistere nelle prove. Timoteo, in quanto pastore della comunità cristiana, deve essere saggio e vigilare su se stesso e sull'insegnamento che impartisce alla Chiesa, che gli fu affidata con la consacrazione episcopale. Verso le false dottrine e i falsi maestri, che deviano i credenti dalla retta via, deve essere deciso e attento come una vigile sentinella.

Paolo, in questa lettera, dà istruzioni circa il comportamento delle donne, sulle qualità e virtù cristiane richieste ai diaconi e sul ruolo delle vedove nella comunità cristiana.

Tra le esortazioni sono di notevole attualità i consigli diretti al comportamento verso le persone anziane: « Non rimproverare duramente un anziano, ma esortalo come fosse tuo padre, i più giovani come fratelli, le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle, in tutta purezza» (5,1-2); il monito dall'avidità del denaro che Paolo definisce "radice di tutti i mali" (6,10). La lettera termina con questo caldo invito: « Timoteo, custodisci ciò che ti è stato affidato; evita le chiacchiere vuote e perverse e le obiezioni della falsa scienza. Alcuni, per averla seguita, hanno deviato dalla fede» (6,20-21).

https://youtu.be/rVhUzYpM5VY

Don Pierino Ongaretti lettera a Timoteo 1


11. SECONDA LETTERA A TIMOTEO

Si distingue dalla prima lettera a Timoteo e da quella a Tito, soprattutto perché testimonia una tenera relazione di paternità spirituale di Paolo con il discepolo Timoteo. La lettera è, infatti, indirizzata "a Timoteo, figlio carissimo" (2Tim 1,2). I brani che illustrano questa relazione sono diversi. Fin dai primi versetti, Paolo ricorda il suo affetto per Timoteo: Timoteo doveva avere un carattere timido, che rischiava di farlo cadere nella rassegnazione e nell'inerzia. Paolo lo esorta a "ravvivare il dono ricevuto da Dio". Divenuto responsabile delle comunità, Paolo, come un padre, lo incoraggia a perseverare, con autorevolezza, nella sua missione (cfr 2Tim 1,6-8). Paolo è, per Timoteo, padre e maestro da imitare, per la capacità di soffrire per Cristo e di predicare il messaggio, coraggiosamente, anche in mezzo alle persecuzioni e a rischio della propria vita (cfr. 2Tim 3,10-11).

Diversi brani della lettera richiamano a un testamento spirituale che il padre affida al figlio (cfr. 2Tim 4,1-8).

Per questo motivo alcuni studiosi ritengono che la seconda lettera a Timoteo potrebbe essere stata scritta direttamente da Paolo. O perlomeno, essa riporterebbe memorie autorevoli che aiutano a ricostruire alcuni particolari dell'ultimo periodo della vita di Paolo (cfr. 2Tim 4,9-18).

La seconda lettera a Timoteo può essere definita un programma pastorale affidato ai responsabili delle comunità. Esso è redatto tramite una comunicazione di tipo epistolare la quale rinnova, in maniera molto viva, la memoria della relazione paterna di Paolo verso Timoteo, suo figlio nella fede. Al tempo della composizione della lettera, Paolo forse era già morto e Timoteo vive una nuova situazione socio ecclesiale. Tocca a lui, vero discepolo di Paolo, continuare come il suo maestro a guidare la comunità con coraggio, affrontando le difficoltà connesse al ministero. Dovrà, in particolare, fondare la sua vita sulla parola di Dio e la dovrà annunciare sempre. Solo dalla Parola il pastore riceverà alimento per vivere nella fede e sostegno della missione.

La fedeltà alla Parola lo renderà pastore autorevole, capace di affrontare i falsi maestri, che dicono ma non fanno e, con il loro cattivo esempio, trascinano altri fuori dalla retta via.

La seconda lettera a Timoteo, tra i libri del Nuovo testamento, è quella che offre una interessante definizione della Sacra Scrittura, dell'ispirazione e dell'importanza della parola di Dio nella vita di ogni cristiano: «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tim 3,16-17).

https://youtu.be/Lw28RUXvzrQ

Don Pierino Ongaretti 2 Timoteo


12 LETTERA A TITO

La lettera a Tito è più breve delle due lettere a Timoteo e più simile alla prima a Timoteo. Come questa, propone consigli e istruzioni ai pastori preposti alla guida delle comunità cristiane. Differisce dalle due lettere a Timoteo per il saluto iniziale che presenta la missione di Paolo come impegno per far conoscere la verità che porta a salvezza.

Fin dal v.3, Tito appare responsabile della comunità cristiana di Creta, una città molto difficile, i cui abitanti, secondo un proverbio del posto, erano pigri e bugiardi (v.12). Da questo rilievo si evince che Tito, diversamente da Timoteo, aveva un carattere deciso e godeva di una certa autorevolezza.

Anche Tito, tuttavia, ha bisogno di essere incoraggiato ed esortato a resistere dinanzi ai falsi maestri e a rifuggire dai comportamenti che deviano dalla retta dottrina. Il suo primo insegnamento dovrà coincidere con l'esempio, soprattutto verso le persone più giovani: «Esorta ancora i più giovani a essere prudenti, offrendo te stesso come esempio di opere buone: integrità nella dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile » (Tit 2, 6-7).

I tre capitoli, che costituiscono la lettera, sviluppano queste tematiche: le qualità richieste ai pastori per l'esercizio del loro compito; le direttive che essi devono dare al popolo di Dio perché viva un'autentica vita di fede e, infine, le direttive per trattare con gli anziani, i giovani e gli schiavi. La preoccupazione principale di questa lettera riguarda, comunque, le dottrine perverse e coloro che le insegnano, definiti "insubordinati, chiacchieroni e ingannatori" (1,10).

Tito dovrà presentare la sana dottrina che, in questa lettera, è sintetizzata come "grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini nell'attesa della beata speranza della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per noi" (cfr 2,11-14).

Il contenuto della sana dottrina è presentato anche nel frammento liturgico contenuto in 3, 4-7. La bontà e l'amore di Dio per gli uomini si sono manifestati in Cristo, salvatore nostro. Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia. I credenti, rinnovati dallo Spirito, mediante il battesimo, sono divenuti nella speranza eredi della vita eterna (cfr 3,4-7). Ritorna, come nella prima lettera a Timoteo e soprattutto nella lettera ai Romani, la certezza che alla base della vita cristiana vi è la misericordia di Dio. Essa si è rivelata in Gesù Cristo, il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone. Questo dono di Dio esige un comportamento cristiano coerente, saggio caritatevole, che sa "distinguersi nel fare il bene". Contro coloro che deviano da questa unica verità, Tito, per salvaguardare la fede e i credenti, deve essere fermo e deciso, dovrà, se necessario, zittirli e respingerli anche con durezza.

https://youtu.be/MWQzsoQqKCw

Don Pierino Ongaretti lettera a Tito


13. LETTERA A FILEMONE

Più che una lettera, questo scritto, è un biglietto, l'unico che Paolo prigioniero, forse nella città di Efeso o probabilmente a Roma, invia a una persona, Filemone, che viveva nelle vicinanze di Colossi. Paolo, in queste poche righe, regala di sé l'immagine dell'apostolo prigioniero per Cristo, che soffre per i credenti; dell'amico che cerca il bene degli amici e la loro crescita cristiana; del padre spirituale che si fa carico dei figli generati alla fede; del pastore che si prende cura di ogni persona affidata alle sue cure.

Lo scritto inizia con queste parole: "al carissimo Filemone, nostro collaboratore, alla sorella Apfìa, ad Archippo nostro compagno nella lotta per la fede e alla comunità che si raduna nella tua casa".

Scrive a questo carissimo cristiano e collaboratore per invitarlo a riaccogliere lo schiavo Onesimo, che era fuggito dalla sua casa. In quei tempi la schiavitù era normale in contesti pagani. Filemone proveniva dal paganesimo! Onesimo, in circostanze che ci sfuggono, incontra Paolo, accoglie il Vangelo, divenendo cristiano come il suo padrone. Filemone è invitato ad accogliere Onesimo e a trattarlo come fratello nel Signore. Tanto più che la sua casa era divenuta 'chiesa domestica', il luogo cioè dove i cristiani si radunavano per pregare e ascoltare la Parola di Dio: Filemone e la moglie Apfia (o Alfia) erano i responsabili. Paolo gli raccomanda Onesimo con parole calde e coinvolgenti, in nome della profonda amicizia cristiana che li unisce: "Ti prego per Onesimo, figlio mio, che ho generato nelle catene, lui, che un giorno ti fu inutile, ma che ora è utile a te a me. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore" (vv.10-11).

L'amicizia cristiana è profonda filadelfia (amore fraterno) che allarga gli orizzonti del cuore verso tutti, anche versi i nemici. "Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso" (v.17). L'amicizia cristiana, testimoniata da Paolo, in questo biglietto, regala le ali, per volare in alto e lontano.

Filemone avrebbe tutte le ragioni per punire Onesimo. La fede cristiana gli ricorda che, in quanto cristiano, dal Signore Gesù che si è fatto schiavo per liberare noi dal peccato, ha imparato non solo a perdonare ma a suscitare fraternità. Accoglierà Onesimo "non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore" (v.16).

https://youtu.be/WGqYaUioTE8

Don Piero Ongaretti Lettera a Filemone

LETTERA AGLI EBREI

Il testo denominato Lettera agli ebrei è stato definito lo scritto dei tre no! (Vanhoye). In realtà, non è una lettera, ma un'omelia pronunciata, probabilmente, durante una solenne liturgia cristiana, non dall'apostolo Paolo, ma da un maestro del primo secolo d.C. Questa predica è rivolta ai cristiani, compresi quelli di origine ebraica, disorientati e scoraggiati, per spronarli a sperare in Cristo Gesù, nostro unico mediatore. Che si tratti di un discorso lo si deduce dal fatto che l'autore stesso afferma di parlare e richiede attenzione al suo discorso (cf 2,5; 8,1;9,5 ). Mancano il mittente e il destinatario richiesti dalle lettere.

La particolarità di questo testo, rispetto agli altri libri del Nuovo Testamento, è nella descrizione originale - e alla luce della liturgia dell'Antico Testamento - del mistero di Cristo nel suo rapporto filiale con Dio e nella solidarietà fraterna con l'intera umanità peccatrice. Il sacerdozio di Gesù consiste in questa duplice ed esclusiva mediazione.

L'omelia agli Ebrei è composta da 13 capitoli. Inizia con un discorso solenne che fa contemplare Gesù glorioso, Parola ultima e definitiva di Dio. Riflette, quindi, sul percorso storico di incarnazione, sofferenza, morte e risurrezione di Gesù che lo resero l'unico mediatore tra Dio e l'umanità.

Il cuore del messaggio di questo scritto è contenuto nel capitolo 9,11-14, dove si afferma che Gesù è il nuovo sacerdote, non perché - per ottenere la purificazione dei peccati del popolo - abbia offerto vittime sacrificali esterne, come si offrivano gli animali nel Tempio di Gerusalemme, ma perché offrì se stesso come sacrificio a Dio e senza mediazioni sacerdotali esterne. Egli è la vittima per eccellenza, il sacerdote che permette di vivere in comunione profonda con Dio. L'immagine di Gesù sacerdote proposta dall'omelia agli ebrei è diversa da quella del sacerdote dell'Antico Testamento. Costui si presentava a Dio, nel Tempio, ogni anno per offrirgli, per il perdono dei peccati, gli animali. Gesù, invece, ha offerto se stesso, una volta per sempre. Il suo dono volontario aprì definitivamente l'accesso dei cristiani al Padre e rese possibile la nuova alleanza.

I capitoli 10-13 invitano i battezzati a vivere la nuova alleanza, iniziata da Gesù, nel quotidiano. A lasciarsi, cioè, purificare dal peccato, a vivere da figli di Dio ubbidienti alla sua Parola, a essere forti dinanzi alla sofferenza, ad accogliere la correzione che proviene dal Signore, e, come Gesù, a realizzare rapporti fraterni solidali. La fede adulta che affronta con coraggio le prove della vita cristiana e l'amore fraterno è il culto della nuova alleanza che Dio gradisce.

Lo scritto agli Ebrei presenta Gesù, nostra speranza certa, con l'immagine dell'àncora già gettata nel porto (Ef 6,19). Egli è già entrato nei cieli. I cristiani che sono con lui sono certi della loro salvezza, pur sapendo che devono ancora percorrere le 'piste giuste' aperte da Gesù.

https://youtu.be/jvACx86EO40

Don Piero Ongaretti Lettera agli Ebrei


LETTERE CATTOLICHE

Al corpus paolino fanno seguito le sette lettere chiamate “cattoliche”: Giacomo, 1-2 Pietro, 1-2-3 Giovanni, Giuda. La loro disposizione riflette probabilmente l’ordine in cui sono menzionati i tre apostoli in Gal 2,9, con l’aggiunta dello scritto di Giuda («fratello di Giacomo»: Gd 1). Già nel IV sec., come testimonia Eusebio di Cesarea, questo gruppo di lettere era noto sotto tale denominazione e furono intese in Oriente come lettere di portata universale, destinate non a una Chiesa particolare, ma ai cristiani in generale o a più comunità, mentre in Occidente questa designazione divenne il segno dell’accettazione generale di cui esse ormai stavano godendo. Per quanto riguarda le loro attribuzioni, tuttavia, se i nomi di Giacomo, Pietro e Giuda compaiono all’inizio dei rispettivi scritti, non è così per il nome Giovanni: la 1 Giovanni non porta alcun nome, mentre 2 e 3 Giovanni recano come titolo «il Presbitero». Queste ultime due nominano anche dei destinatari («alla Signora eletta da Dio e ai suoi figli»: 2Gv 1; «al carissimo Gaio»: 3Gv 1) e si presentano nella forma di autentiche lettere. La 1 Giovanni non nomina i destinatari e manca degli elementi tipici di una lettera: l’unico tratto epistolare può essere il ripetuto uso del “voi”. Ampie e generiche sono le espressioni che designano i destinatari in Giacomo, 2 Pietro e Giuda. Solo 1 Pietro presenta un quadro regionale preciso delle comunità a cui si rivolge lo scritto: sono cristiani della zona centro-settentrionale dell’Asia Minore.


1. LETTERA DI GIACOMO

La lettera di Giacomo, "fratello di Gesù", cioè suo parente stretto e capo della comunità di Gerusalemme fino al 62 d.C., anno della sua morte, è una sintesi dei suoi discorsi su diversi aspetti della vita cristiana, specie di comportamento.

Il contenuto della lettera è basato su argomenti pratici: l’autore insiste sulla fede che agisce. L’epistola è rivolta “alle 12 tribù disperse nel mondo”, a sottintendere che lo scritto è indirizzato a ebrei convertitisi al cristianesimo, dovunque essi si trovino.

Subito dopo i saluti l’autore consola i lettori che si trovano nella sofferenza. Li incoraggia a rimanere fermi nella fede, mostrando loro da dove proviene la tentazione (1,2-21). Poi spiega ai cristiani che la fede vera non è fatta solo di parole, ma dal mettere in pratica la Parola di Dio (1,22-27). Aggiunge che esercitare preferenze a favore di alcuni, discriminando i più poveri è un peccato (2,1-3). Chiarisce come si manifesta la vera fede, che altrimenti senza le opere è morta (2,14-26). Esorta a tenere a freno la lingua (cap 3), sollecita ad abbandonare lo spirito litigioso e la fiducia riposta nella ricchezza (4.13 a 5,6). La lettera conclude con un incoraggiamento ad essere pazienti nella prova, costanti nella preghiera e attenti a ricondurre alla fede il peccatore smarrito.

Giacomo si schiera apertamente contro la fede solo intellettuale, il semplice “credere” che anche i demoni posseggono (2,19): le opere buone che si compiono sono i frutti di una vita veramente trasformata in Cristo.

Come abbiamo visto nella lettera di Paolo ai Romani, Dio conosce esattamente se abbiamo fede in lui e nel sacrificio di Cristo, e solo questo potrà renderci giusti davanti al suo cospetto. Giacomo però sottolinea un'altro aspetto: quando crediamo, la nostra vita cambia, e le opere che possiamo compiere dopo questo passaggio testimoniano di cosa è avvenuto in noi lasciando nel cuore degli uomini che le osservano la certezza che qualcosa è successo.

https://youtu.be/7FSeiKyrkgI

Don Doglio Lettera di Gicomo


2. LETTERA DI GIUDA

La lettera di Giuda, fratello di Giacomo, può non essere dell'apostolo. Ad ogni modo, dal punto di vista teologico, escatologico, dottrinale e sociale, mostra una società in evoluzione, in cui l’Impero Romano è forte, radicato e nel pieno delle persecuzioni contro la fede cristiana. 

L’invito è lo stesso che perdura sino ai giorni nostri: dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che gli appartiene. Rispettare le Istituzioni e non entrare in conflitto in nome della sovversione . Lo scritto mette in guardia da predicatori ambulanti, che si introducono nelle Chiese per corrompervi la fede e i costumi.

La lettera ha un tenore apocalittico, che per brevità e forte componente simbolica, ha trovato poco spazio all’interno dell’esegesi biblica.

Dal profondo valore apologetico, il testo è un baluardo per la difesa della fede cristiana; una roccia su cui si infrangono i vani tentativi dell’epoca per raggirare i credenti – specie quelli provenienti dal paganesimo, ancora fragili e acerbi nella fede.

https://youtu.be/saEFGjeKfSQ

Don Federico Tartaglia Lettera di Giuda


3. PRIMA LETTERA DI PIETRO

La 1 Pt viene scritta a Roma, prima della morte di Pietro (64). Dal 61 al 63 Paolo è anch’egli presente nella capitale come prigioniero a domicilio coatto in attesa di giudizio. Anche Luca lo ha accompagnato ed è lì. Ci sono pure Sila (Silvano), Marco, Timoteo e Barnaba.. La comunità dei cristiani di Roma è composta da alcune centinaia di persone, la quasi totalità provenienti dal paganesimo. 

È scritta con uno stile scorrevole, in un greco elaborato, di eccellente qualità, con un vocabolario ricco e vario, con una teologia elevata. Gli esegeti sono perciò scettici sulla diretta paternità petrina. È stata dunque scritta su indicazione dell’apostolo da una persona di grande cultura letteraria e teologica, influenzata dalla teologia paolina. Questi è Silvano, o Sila, un giudeo-cristiano ellenista. È molto probabilmente quel Sila di cui si parla negli Atti degli Apostoli, membro della comunità di Gerusalemme (At 15,22-41), poi accompagnatore di Paolo nel secondo viaggio missionario (At 15,4-18,5; 1Ts 1,1; 2Ts 1,1; 2Cor 1,19). Adesso, secondo 1 Pt 5,13, Silvano si trova accanto a Pietro a Roma. Pietro alla fine della lettera dice che l’ha scritta per mezzo di Silvano, il che può significare che Silvano ha scritto la lettera sotto dettatura, ma più probabilmente che Silvano ha scritto la lettera per incarico e a nome di Pietro collezionando alcune tracce della sua predicazione rivolta ai neo battezzati. Essa lettera contiene spezzoni e sintesi delle omelie e catechesi che san Pietro teneva ai catecumeni e ai neobattezzati. È perciò una antologia di testi battesimali raccolti da Silvano. Essendo una collezione di discorsi battesimali la lettera riprende molte volte le stesse idee e avvicina riflessioni differenti. Non c’è perciò un filo logico molto forte, un ragionamento che passi dal primo capitolo al secondo, ma è un continuo ritorno sui medesimi temi ripresi da angolature diverse. 

Comunque contiene una tesi centrale: si tratta di Cristo morto e risorto, con cui il credente è chiamato a identificarsi soprattutto nelle prove. Al centro di tutta la vita cristiana ci deve sempre essere unicamente Cristo, quale punto di riferimento costante e chiave di volta di interpretazione per leggere la vita alla luce della volontà di Dio.

La lettera va letta e compresa come una lettera essenzialmente pastorale. Il motivo per cui l'autore scrive è spronare, rafforzare e consolare la comunità di Roma e le piccole e giovani comunità che vivono in mezzo ai pagani (2,12a) e che soffrono la persecuzione a resistere nella fede (5,8-9.12), forti e salde nella speranza della vittoria. È bello notare l'amore con cui un apostolo da lontano, cioè da Roma, vuole essere vicino a questi cristiani e come le chiese si sentano tutte parte di un unico corpo.

https://youtu.be/ah5dtrAlgN8

Don Doglio Prima lettera di Pietro


4. SECONDA LETTERA DI PIETRO

L'autore di questa "lettera cattolica", diretta cioè a tutti i credenti, appartiene al gruppo che fa capo all'apostolo Pietro. Ne accolgono l'insegnamento e si richiamano fedelmente alla sua autorità. La lettera è composta di tre capitoli, ma i richiami alla figura di Pietro la percorrono dall'inizio alla fine. In primo luogo, a partire dal mittente che si presenta con il nome di Simon Pietro. Dell'apostolo si ricorda, poi, che fu testimone oculare della trasfigurazione (Mc 9,2-10; Mt 17,1-9; Lc 9,28-36). Si accenna, infine, alla sua morte, richiamando il vangelo di Giovanni, dove Gesù gli predice (Gv 21,18-19): «Io credo giusto, finché vivo in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose» (1,13-15).

La forma letteraria di questo scritto è quella del testamento. L'apostolo Pietro, consapevole dalla sua missione pastorale e della responsabilità che gli fu affidata dal Signore Gesù, ormai vicino alla fine della sua vita, raccomanda ai cristiani di perseverare nella fede ricevuta, di mantenersi lontani dalle dottrine contrarie alla fede e dai comportamenti contrari ad essa. «Con i miei avvertimenti cerco di ridestare in voi il giusto modo di pensare, perché vi ricordiate delle parole già dette dai santi profeti e del precetto del Signore e salvatore, che gli apostoli vi hanno trasmesso» (3,1-2).

L'evidente preoccupazione pastorale testimonia che questo scritto, come le lettere pastorali di Paolo, è rivolto a comunità della fine del I secolo, periodo nel quale cominciavano a sorgere eresie dottrinali che procuravano disorientamento. I falsi maestri sono tanti e il loro ragionamento è pericoloso, soprattutto nei riguardi delle sacre Scritture. Essi le interpretano in maniera soggettiva. Arrivano anche a rinnegare Gesù (cfr. 2,1) e assimilano la speranza cristiana a una favola. Anche la loro condotta morale è pericolosa perché rinnega la via indicata e seguita da Gesù. L'autore ricorda che Gesù è il vero salvatore. La memoria forte della sua salvezza per noi, suscita e sostiene la vera fede e i comportamenti cristiani ad essa coerenti.

La fede cristiana è, dunque, fondata sull'autorità di Gesù, sulla tradizione degli apostoli ed è trasmessa dalla Chiesa che interpreta le sacre Scritture contenute nell'Antico Testamento e nei primi scritti del Nuovo testamento, che cominciavano a circolare. Si fa accenno, infatti, alle lettere dell'apostolo Paolo, che già circolavano da tempo e, di esse si afferma che sono Scrittura sacra, cioè Parola di Dio, come è Scrittura sacra l'Antico Testamento: «La magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3,16-17).

https://youtu.be/vGSDpS_Wzc0

Don Doglio II lettera di Pietro


5. PRIMA LETTERA DI GIOVANNI

Un autorevole esponente della Chiesa delle origini attinge alla propria esperienza di vita, trascorsa con Gesù, per insegnare ai suoi cristiani le condizioni da osservare per avere la comunione con Dio e la gioia. Dio è luce, è giustizia, è amore; da queste caratteristiche derivano i dettami riguardanti la vita concreta: occorre evitare il peccato, vivere la retta fede, praticare il comandamento dell’amore. L’insegnamento mette in guardia contro dottrine erronee, sia nei confronti della fede sia nei confronti del comportamento pratico. L’adesione al mistero di Gesù, Cristo e Figlio di Dio incarnato, insieme al riconoscimento dell’universale condizione di peccato, rende partecipi della salvezza che Dio offre ai “figlioli” (2,1.12.18), attraverso l’invio del suo Figlio. Il contenuto di prima Giovanni può essere riassunto in questo schema:

Testimoni di Gesù (1,1-4)

Dio è luce (1,5-2,29)

Dio è giusto (3,1-4,6)

Dio è amore (4,7-5,17)

Conclusione (5,18-21).

Questa lettera non riporta né il nome dell’autore né quello dei destinatari e non contiene neppure il saluto iniziale o finale, pur supponendo una cerchia di interlocutori. Si è parlato di omelia, o di trattato teologico, oppure di una esortazione. In realtà l’autore scrive un’opera parzialmente epistolare per trattare i problemi sorti nell’ambiente dei suoi lettori, alternando istruzioni ed esortazioni. Il linguaggio ha forti somiglianze con quello del vangelo di Giovanni. In particolare, ricorre sovente a uno schema dualistico, nel quale si contrappongono coloro che sono nati da Dio, i “figli della luce”, a coloro che non lo sono, i “figli delle tenebre”. È usata con rilievo la terminologia di verità, conoscenza (e riconoscimento), visione. Questo linguaggio si adegua a un ambiente in cui si stava diffondendo un modo nuovo di pensare e di parlare, che sarebbe poi sfociato in correnti ereticali di carattere cristologico (in particolare il docetismo e lo gnosticismo) e di carattere morale (ritenersi immuni da ogni peccato: 1,8-10).

L’autore della lettera non dichiara mai il proprio nome. La tradizione antica e le caratteristiche del pensiero e dell’insegnamento dello scritto attestano l’identità di questo autore con l’autore del vangelo di Giovanni: se non è il figlio di Zebedeo, deve trattarsi di persona a lui assai vicina. È quindi lecito parlare di un autentico scritto “giovanneo”. Il confronto della lettera con il quarto vangelo fa pensare che probabilmente (ma la cosa è discussa) sia stato scritto prima il vangelo e che la lettera applichi l’esempio e l’insegnamento di Gesù alla situazione delle comunità cristiane contemporanee, nell’area soprattutto dell’Asia Minore, in particolare di quella efesina. Il tempo di composizione dello scritto sarebbe allora di poco posteriore a quello del vangelo: negli ultimi anni del primo secolo.

https://youtu.be/75VFt24za3E

Don Pierino Ongaretti Prima lettera di Giovanni


6.  SECONDA LETTERA DI GIOVANNI

Il canone del Nuovo Testamento ha conservato subito dopo la lettera di Giovanni altri due brevi testi attribuiti allo stesso apostolo, indicati semplicemente con un numero successivo per distinguerli dalla «prima». 

Il vocabolario, lo stile e la dottrina di questi due biglietti rivelano una stretta vicinanza fra di loro e con gli altri scritti giovannei: molto di quello che è già stato detto a proposito della prima lettera di Giovanni vale, quindi, anche per la seconda e la terza. 

Non così facilmente furono però accolti dalla chiesa come testi ispirati e canonici.

L’autore non dice di essere Giovanni; si presenta come «il presbitero», adoperando un termine abituale nella comunità antica per indicare il «capo famiglia», il responsabile della chiesa, Tale titolo non è incompatibile con quello di apostolo: il mittente, infatti, si presenta come «il» presbitero, cioè come il capo per antonomasia. Nel suo ambiente tutti dovevano conoscerlo e stimarlo.

La seconda lettera di Giovanni è indirizzata «alla Signora eletta e ai suoi figli» (v.1): questa designazione indica con ogni probabilità una chiesa locale dell’Asia Minore, con cui l’autore doveva avere particolari legami, poichè dice di amarne tutti i figli. La metafora della «eletta signora» (vv.1.5) e della «eletta sorella» (v.13) serve per indicare due comunità, quella destinataria e quella mittente; non si tratta quindi di due persone, ma di simboli della chiesa locale. Dopo la formula di apertura, si ha il breve contenuto della lettera: 

1-3 Indirizzo e saluto. 

4-12 Corpo della lettera. 

13 Formula di conclusione. 

L’autore rivela le sue vive preoccupazioni per la minaccia rappresentata dai falsi maestri che diffondono dottrine eretiche: «Molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo! Fate attenzione a voi stessi, perché non abbiate a perdere quello che avete conseguito, ma possiate ricevere una ricompensa piena» (vv.7-8). Non si tratta di comunicare un nuovo insegnamento, ma solo di ribadire la verità della predicazione apostolica contro le deformazioni gnostiche. Così l’autore raccomanda alla comunità sorella di troncare ogni rapporto con questi eretici: «Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse» (vv.10-11). Una semplice formula di cortesia e di saluto chiude la lettera. 

La sua importanza storica sta nel fatto che ci presenta una comunità cristiana dei primi tempi che progredisce nella fede, ma che avverte pure i pericoli che la minacciano e si impegna nella difesa della fede.

https://youtu.be/Pq_2m0eM7Qo

 Don Federico Tartaglia II lettera di Giovanni


7. TERZA LETTERA DI GIOVANNI

Il breve scritto chiamato «terza lettera di Giovanni» presenta la caratteristica di un biglietto personale che si limita a suggerire alcune norme pratiche. Valgono anche per questa terza lettera tutte le osservazioni fatte in precedenza a proposito della canonicità e dell’autore. 

Chi scrive si presenta ancora come «il presbitero», si rivolge, questa volta, non ad una comunità, ma ad un singolo personaggio: «al carissimo Gaio, che amo nella verità» (v.1). Alla cortese formula di apertura fa immediato seguito il breve corpo della lettera: 

1-2 Indirizzo e saluto; 3-14 Corpo della lettera;15 Conclusione. 

Gaio è un credente che, per vita ed impegno, si è distinto nella comunità cristiana: a lui l’autore dimostra un senso di profonda fiducia ed è largo di elogi nei suoi confronti. Particolare titolo di merito è il fatto che Gaio aiuta generosamente i missionari itineranti che giungono nella sua comunità: «Carissimo, tu ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché forestieri. Essi hanno reso testimonianza della tua carità davanti alla Chiesa, e farai bene a provvederli nel viaggio in modo degno di Dio, perché sono partiti per amore del nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani. Noi dobbiamo perciò accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità» (vv.5-8). 

Purtroppo questa chiesa è venuta a trovarsi in una situazione difficile ed incresciosa, perchè il suo capo Diotrefe, geloso del primato che gode il presbitero, non vuole accogliere i predicatori itineranti da lui inviati e giunge perfino ad espellere dall’assemblea i cristiani che ospitano questi missionari. L’apostolo se ne mostra assai preoccupato: questi predicatori itineranti erano inviati da lui nelle varie comunità per ravvivare la fede dei cristiani appena convertiti e per diffondere la fede presso i pagani; per tale motivo, non volendo sembrare maestri interessati o mercanti della verità, non potevano contare sull’aiuto materiale dei pagani, ma dovevano fare affidamento sull’aiuto dei cristiani. L’autore ricorda a Gaio e alla sua chiesa questo importante dovere di generosità e li esorta a continuare nel loro aiuto prestato ai missionari. Annunciando una sua prossima visita, il presbitero esprime l’intenzione di rimproverare apertamente Diotrefe: «se verrò, gli rinfaccerò le cose che va facendo, sparlando contro di noi con voci maligne» (v.10). 

Alla fine del biglietto, l’apostolo raccomanda caldamente Demetrio al suo destinatario: «Quanto a Demetrio, tutti gli rendono testimonianza anche la stessa verità; anche noi ne diamo testimonianza e tu sai che la nostra testimonianza è veritiera» (v.12). La lettera termina con una cordiale formula di saluto e di augurio. 

https://youtu.be/BpwCxc5Vzbg

Don Federico Tartaglia III lettera di Giovanni


APOCALISSE

L’ultimo libro della Bibbia è  veramente originale, affascina e sconcerta insieme. Tutta l’opera, infatti, è la rivelazione del mistero di Dio e la presentazione di Gesù Cristo, sacramento dell’incontro con Dio. Proprio per la sua complessa difficoltà l’Apocalisse è un libro eccezionale, che non lascia indifferenti: mira a coinvolgere il lettore in un’opera continua di interpretazione, al punto che il libro stesso sembra un «lavoro in corso». 

Per poter, quindi, entrare in questa dinamica e gustarla in pienezza è necessario da parte del lettore un atteggiamento di «simpatia», con la paziente volontà di vivere e condividere l’esperienza della comunità cristiana riunita intorno a Giovanni. La parola «Apocalisse» è la trascrizione italiana del sostantivo greco «apokàlypsis», che significa «azione del togliere ciò che copre o nasconde», cioè «scoprire, svelare». La traduzione corrente con «rivelazione» esprime bene l’azione di chi rimuove il velo per mostrare ciò che era nascosto. 

Posto all’inizio dell’ultimo libro del NT, il vocabolo apokàlypsis ne è divenuto il titolo e, conservando la sua forma greca, è stato usato nei secoli come termine tecnico per designare l'intero libro ed il suo contenuto. Il libro dell’Apocalisse, dunque, intende essere la rivelazione di Gesù Cristo: il grande annuncio della salvezza operata dal Cristo, dell’intervento definitivo di Dio nella storia umana, della presenza potente ed operante del Signore Risorto nelle dinamiche storiche fino al compimento finale. È un libro di consolazione e di speranza, una grande professione di fede nella signoria cosmica del Cristo Signore, vincitore del peccato e della morte; tutt’altro che una lugubre previsione di sciagure e disgrazie

L’autore dell’Apocalisse adopera un patrimonio linguistico e simbolico che ha ereditato dalla tradizione giudaica: è quindi naturale che assomigli sotto molti aspetti alla letteratura apocalittica giudaica. 

Tuttavia, per alcuni elementi importanti, relativi all’ambiente di origine e alla teologia che esprime, se ne distacca, al punto da far nascere il dubbio che si possa parlare di uno scritto apocalittico. 

Nonostante la prima parola dell’opera, l’autore fa sempre riferimento al suo testo, chiamandolo «profezia», sia nel prologo (1,3) sia nell’epilogo (22,7.10.18.19); egli stesso, inoltre si presenta come investito del compito profetico (cfr. 10,11; 19,10; 22,9). Con tale terminologia, tuttavia, non si intende la previsione del futuro, ma lo sforzo di leggere ed interpretare la storia alla luce della rivelazione divina.

L’apocalittica è, per molti aspetti, erede dell’antica profezia e l’opera di Giovanni si presenta proprio come tale: una riflessione sulla storia ed il suo senso, un tentativo coraggioso di legare la fede alla vita, per capire il presente e poter progettare il futuro secondo l’ottica di Dio. 

Questo lavoro di discernimento viene fatto, soprattutto, con la rilettura dei testi biblici dell'Antico Testamento, nell’ambito della celebrazione liturgica, per annunciare l’avvenuto compimento delle promesse di Dio nel mistero pasquale di Gesù Cristo. 

Il libro è così configurato: 

Prologo liturgico (1,1-8) 

Prima parte: LE LETTERE ALLE SETTE CHIESE: 

 1,9-20: visione introduttiva; 

 2,1-3,22: le sette lettere. 

Seconda parte: I TRE SETTENARI: 

1) Settenario dei sigilli: 

 4,1-5,14: visione introduttiva; 

 6,1-8,1: apertura dei sette sigilli; 

2) Settenario delle trombe: 

 8,2-6: visione introduttiva; 

 8,7-11,19: suono delle sette trombe. 

3) Settenario delle coppe: 

 12,1-15,8: visioni introduttive (trittico dei segni); 

 16,1-21: versamento delle sette coppe; 

 17,1-22,5: complemento del settenario. 

Epilogo liturgico (22,6-21) 

Questi tre settenari, inoltre, sembrano contenuti l’uno nell’altro: il settimo sigillo (8,1), infatti, abbraccia tutta la parte seguente, così la settima tromba (11,15-19) comprende tutto il seguito e anche la settima coppa (16,17-21) ingloba tutto il resto del libro. L’idea della ricapitolazione, quindi, con i dovuti chiarimenti, ritorna ad illuminare 

l’interpretazione letteraria e teologica dell’Apocalisse.

La struttura simbolica dell’Apocalisse rende complessa ed ardua la sua interpretazione: è praticamente impossibile esaurire il significato delle varie immagini e determinare con precisione il loro messaggio teologico. Se, a livello generale, la celebrazione del mistero pasquale di Cristo e la riflessione sul senso della storia possono considerarsi punti chiari e sicuri, lo stesso non può dirsi per moltissimi particolari dell’opera. 

Sono anzitutto importanti i titoli con cui viene presentata la figura di Dio. La tipica formula divina «Colui che è e che era e che viene» (1,4.8; 4,8), mostra Dio come colui che interviene attivamente e attualmente nella storia; egli è «l’alfa e l’omega» (1,8), colui che determina l’inizio, lo sviluppo e la conclusione di ogni storia; è il «Pantokrator» (l’onnipotente), «colui che siede sul trono» ed esercita un reale controllo sul cosmo e sulla storia; egli, inoltre, «vive nei secoli dei secoli» (4,9.10; 10,6; 15,7), non è limitato dal tempo, anzi ne è il Signore. 

Alla sobrietà dei titoli divini si contrappone l’abbondante varietà delle formule che presentano e descrivono Gesù Cristo. Nel saluto iniziale (1,5a) egli è presentato come «testimone degno di fede», cioè rivelatore credibile del mistero divino; «primogenito dei morti», in quanto ha condiviso la sorte mortale degli uomini ed ha dato origine alla nuova generazione dei viventi; «principe dei re della terra», cioè sovrano dominatore di tutte le potenze che continuano ad operare nel mondo e nella storia. 

L’assemblea liturgica celebra e ringrazia il Cristo innanzi tutto per lo stato abituale di relazione amorosa che lo lega alla sua Chiesa (cfr. 1,5b-6); tale relazione, fondata nell’evento storico della Pasqua, si instaura grazie al battesimo, inteso come reale partecipazione alla morte e alla nuova vita di Gesù: l’aspetto negativo è presentato come scioglimento dai legami dei peccati per mezzo del sacrificio stesso di Cristo, mentre l’aspetto positivo è indicato come effettiva partecipazione dei cristiani alla regalità e alla mediazione sacerdotale del Signore Risorto: «Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per Dio e Padre suo».

Quest’ultimo elemento è particolarmente significativo. L’espressione, derivata da Es 19,6, ricorre in forma simile in altri due passi dell’Apocalisse (5,10; 20,6) e con essa l’autore esprime una innovativa visione teologica. La comunità cristiana, liberata dal Cristo, si sente un «regno», sente cioè di appartenere totalmente al Padre di Gesù Cristo e di condividere con lui la funzione sacerdotale di mediazione e di salvezza: tutti i cristiani sono sacerdoti e condividono una responsabilità attiva, collaborano col Cristo per fare della storia il Regno di Dio. Alcuni titoli importanti qualificano Gesù Cristo come «il risorto»: «il Primo e l’Ultimo», «il Vivente», «divenni morto», «sono vivente per i secoli dei secoli», «ho le chiavi della morte e dell’Ade» (cfr. 1,17-18). 

Altre formule, infine, lo avvicinano alla stessa figura di Dio, come «Figlio di Dio» (2,18b), «Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini e dà a ciascuno secondo le proprie opere» (2,23), «il Santo» 

(3,7); oppure ne mostrano il ruolo decisivo di rivelatore e salvatore, tipo «il Veritiero» (3,7), «l’Amen» (3,14), «il principio della creazione di Dio» (3,14), «il Logos di Dio» (19,13), «re dei re e signore dei signori» (17,14; 19,16). 

In secondo luogo, gli interventi lirici nel corso dell’Apocalisse sono particolarmente significativi, perchè riportano con buona probabilità frammenti di testi liturgici effettivamente adoperati nella comunità giovannea e testimoniano quindi in modo esplicito la fede di quella Chiesa. 

Gli inni della visione iniziale (cfr. 4,11; 5,9) mostrano come l’opera della creazione tenda alla salvezza e l’evento della redenzione sia il vertice del piano di Dio: la grande scena simbolica presenta, di fronte all’umanità incapace e impotente, il Cristo risorto, l’unico capace di aprire il libro del mistero, perchè ha accolto perfettamente il piano di Dio fino ad essere ucciso e la sua «capacità» viene offerta a tutti gli uomini senza alcuna distinzione, in modo tale che li abilita a collaborare all’instaurazione del Regno con una mediazione tipicamente sacerdotale. 

Creazione e redenzione sono strettamente legate come in stretto rapporto sono il Dio creatore ed il Messia redentore: 

«La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello» (7,10). 

Gli altri interventi lirici nel corso del libro mettono in particolare evidenza l’instaurazione del regno di Dio attraverso l’opera del Cristo: in questi casi le formule sono molto vicine alle corrispondenti espressioni usate comunemente nel resto del Nuovo Testamento. Il compimento del «mistero di Dio» (cfr. 10,7) viene espresso generalmente da un canto: «Il regno del mondo è diventato del nostro Signore e del suo Cristo e regnerà per i secoli dei secoli» (11,15); «hai messo mano alla tua grande potenza e hai instaurato il tuo regno» (11,17); «ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo» (12,10). 

Il solenne canto dell’alleluia, infine, è giustificato da due cause: l’inaugurazione del regno messianico («Ha preso possesso del suo regno il Signore»: 19,6) e la celebrazione delle nozze fra l’Agnello e la «sua donna»: l’intervento escatologico dell’Agnello divino, infatti, distrugge il mondo corrotto e trasforma l’umanità (la donna: da prostituta a sposa), rendendola capace di una autentica comunione con Dio (le nozze). 

In ultimo, anche le sette beatitudini, che compaiono disseminate nel corso dell’Apocalisse, manifestano il pensiero dell’autore e rivelano, anche se solo per allusioni ed accenni, un ricco messaggio teologico (cfr. commento ai singoli passi: 1,3; 14,13; 16,15; 19,9; 20,6; 22,7.14). 

In queste formule sintetiche emerge soprattutto il grande tema della vigilanza cristiana e della fede «apocalittica» nella risurrezione dei giusti connessa con il mistero pasquale di Cristo. La comunità cristiana, quindi, grazie al dono battesimale della vita nuova, simboleggiato dalle vesti può partecipare, in modo reale e duraturo, al mistero salvifico del Cristo, da cui è stata superata la nudità e la vergogna dell’uomo peccatore (cfr. Gen 3,7-10). Il battesimo, dunque, produce e richiede un comportamento di conseguenza; e da questo dono-impegno nasce, come beatitudine, la possibilità di mangiare dell’albero della vita (probabile allusione all’Eucaristia: cfr. 2,7) e di entrare nella nuova comunione con Dio, simboleggiata dalle nozze, dal banchetto e dalla nuova città santa. La comunità liturgica deve, quindi, essere riconoscente per questo beneficio e guardarsi bene dal rifiutare l’invito; ancora una volta la prospettiva teologica è quella dell’incontro personale con Dio attraverso Gesù Cristo ed i simboli sottolineano proprio la dimensione della comunione offerta in dono. 

La sintesi teologica dell’Apocalisse è facilmente ricostruibile intorno al mistero del Cristo risorto: presentato con il simbolo dell’agnello, è riconosciuto come l’unico in grado di rivelare pienamente il progetto salvifico di Dio, simbolicamente egli «può» aprire i sette sigilli (cfr. 5,1-10). 

Questa visione introduttiva fondamentale fa seguito alle sette lettere, che hanno rappresentato la fase di purificazione della comunità ecclesiale, ed introduce tutto il resto dell’opera, in cui la comunità è impegnata a riconoscere la presenza e l’azione di Dio nelle vicende della storia. Lungi dall’essere una previsione di futuri disastri, l’Apocalisse è la rilettura dell’Antico Testamento alla luce del mistero cristiano, nello sforzo di comprendere il piano di Dio, secondo le varie fasi del suo svolgimento, e tale operazione avviene abitualmente nella liturgia dove l’annuncio trova la sua realizzazione sacramentale. 

a) L’intervento decisivo di Dio 

I vari settenari dell’Apocalisse offrono, dunque, una riflessione strutturata sul compimento delle promesse divine contenute nell’Antico Testamento: l’autore ripropone a più riprese i simboli della storia di salvezza e gli interventi di Dio nelle vicende del popolo di Israele. 

Riflettendo sugli antichi testi biblici alla luce del mistero pasquale, ne ricava un messaggio fondamentale: l’intervento escatologico di Dio, preparato e promesso da secoli, si è compiuto in Gesù di Nazaret; con lui si è instaurato il Regno di Dio. 

Nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, Dio ha compiuto l’intervento decisivo ed ha capovolto la situazione: il potere del male è definitivamente sconfitto e all’umanità è concessa la capacità di realizzare il progetto divino. Con entusiasmo e convinzione Giovanni moltiplica le immagini per ripetere lo stesso trionfante annuncio di una salvezza realizzata nel presente. 

b) La collaborazione per il Regno 

La comunità cristiana, aperta alle genti di tutta la terra, costituisce fin da ora la moltitudine innumerevole di coloro che traggono origine dalla passione del Cristo e nel battesimo hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell’Agnello (cfr. 7,14); ora sono giunte le nozze dell’Agnello e il nuovo popolo della Chiesa è come una fanciulla pronta 

per essere finalmente sua sposa (cfr. 19,7; 21,9); come il profeta Ezechiele in esilio, Giovanni annuncia la costruzione di una nuova Gerusalemme ad opera di Dio, vede la distruzione della città santa ad opera dei Romani come il segno della fine dell’antico mondo rovinato dal male e giudicato da Dio, mentre la comunità cristiana gli appare come l’immagine della nuova realtà operata dall’intervento escatologico di Dio in Cristo (cfr. 21,9-22,5). 

La morte di Cristo segna la definitiva sconfitta delle forze maligne, ma non elimina dall’esterno tutti i malvagi e le loro diaboliche macchinazioni. I cristiani del I secolo se n’erano già amaramente accorti e questo faceva loro problema. L’opera di salvezza, annunciata da Giovanni alla sua comunità, è un evento di trasformazione dal profondo, 

che riguarda ogni singola persona e contemporaneamente tutte le strutture del mondo; una trasformazione che chiede collaborazione «sacerdotale» e non si realizza semplicemente in modo magico; una trasformazione che si sta lentamente realizzando in una continua tensione verso il compimento finale e che richiede ai cristiani impegno e decisione nella sicura fiducia che la storia è fermamente nelle mani di Dio. 

c) La nuova realtà creata dal Cristo 

L’ultima parte dell’Apocalisse (17,1-22,5) evoca questa grande trasformazione coi simboli di due donne e due città, immagini interscambiabili fra loro che rappresentano bene l’idea di relazione, il terreno decisivo dell’intervento di Dio. L’evento pasquale ha creato un capovolgimento assoluto, eliminando la prostituta e fondando una nuova Gerusalemme: la realtà «nuova» che la comunità cristiana sperimenta e testimonia è la novità assoluta di Gesù Cristo. La città/sposa, qualificata come «nuova», è l’immagine fondamentale per presentare il «vangelo» di Gesù Cristo, il dono della comunione con Dio: «se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17). Il confronto inevitabile è con la «vecchia» Gerusalemme che, con la monarchia, il tempio ed il sacerdozio era divenuta il simbolo del popolo dell’alleanza con Dio e della stessa dimora divina fra gli uomini.

Il rinnovamento della città e della sposa significa il rinnovamento dell’alleanza. Giovanni non intende descrivere una realtà celeste appartenente ad un altro mondo, ma, con i consueti simboli biblici e in linguaggio apocalittico, vuole annunciare e celebrare la novità dell’alleanza, ovvero il nuovo rapporto filiale con Dio donato agli uomini da Dio stesso attraverso Gesù Cristo. 

La Chiesa gode già pienamente della salvezza, ma non è esonerata dai pericoli, dalle sofferenze, dai difficili rapporti con il mondo che non accetta l’azione del Cristo. Di fronte al dramma della storia, dunque, l’autore dell’Apocalisse mette bene a fuoco l’annuncio cristiano fondamentale e, proprio in virtù di questa fede nel Cristo Risorto, propone un cammino coerente e coraggioso, perchè la Chiesa sia davvero una comunità «nuova» e abbia così la forza per rinnovare tutto il mondo: «Qui appare la costanza dei santi, che conservano le proposte di Dio e la fede di Gesù» (14,12)


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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE


La Sacra Bibbia CEI 2008


Dei Verbum. Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione 2015 Paoline Editoriale Libri 


L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa  – 1 gennaio 1993 a cura della  Pontificia commissione biblica 


Introduzione generale alla Bibbia, Rinaldo Fabris, Ellecici 2006


Introduzione all’antico testamento Gianfranco Ravasi 1991 edizioni Piemme

Introduzione alla Bibbia Doglio Claudio 

edizioni La Scuola collana Strumenti universitari di base , 2010


Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, 1992